Intervento su Devolution
È iscritto a parlare il senatore Eufemi. Ne ha facoltà.
EUFEMI (UDC:CCD-CDU-DE). Signor Presidente, signor Ministro delle riforme istituzionali, onorevoli colleghi, questo dibattito sulla modifica dell’articolo 117 della Costituzione incide sull’assetto costituzionale dello Stato, ma riflette un clima di forte contrapposizione, certo poco funzionale e poco produttivo. Le mie parole vogliono essere solo riflessioni e interrogativi proprio sui contenuti. Certo, dobbiamo mettere ordine al disordine ereditato con le modifiche al Titolo V e questo è un nostro preciso dovere.
È un passaggio delicato e difficile, perché si richiama, da un lato, il programma del Governo e, dall’altro, una verifica sui contenuti e sugli effetti dello stesso, vale a dire se dunque la proposta di riforma è pienamente rispondente agli obiettivi di interesse generale.
Personalmente ritengo che sarebbe stato forse prevedibile seguire un percorso logico diverso, approvando prioritariamente il cosiddetto provvedimento La Loggia, cioè il disegno di legge n. 1545, recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”, realizzando così un autentico e forte federalismo fiscale e infine la devoluzione. Rischiamo, invece, di procedere senza un quadro generale di riferimento. Basti pensare alla pure importante modifica che destina, con l’articolo 3 del disegno di legge finanziaria, l’IRPEG ai luoghi di produzione, affermando dunque un forte legame tra obbligazioni tributarie e territorio, tra imposte e valore ambientale, realizzata però con legge di bilancio.
Senza la riforma del Titolo V, la devoluzione rischia di non poggiare su pilastri forti; è allora, necessario assicurare le due seguenti condizioni: procedere con un riequilibrio della legislazione concorrente e promuovere una leale collaborazione delle Regioni, mentre dobbiamo riscontrare come sia aumentato il tasso di conflittualità tra Stato ed enti regionali.
Il testo dell’articolo 117 – come è stato ricordato – aggiunge competenze esclusive alle Regioni. La portata della nuova competenza regionale risulta quanto mai complessa e potenzialmente controversa.
Noi riteniamo che siano argomenti complessi, che richiedono certamente degli approfondimenti. Dobbiamo fare attenzione a non compiere errori, errori che si aggiungerebbero a quelli della passata legislatura.
È stato autorevolmente richiamato che il progetto di riforma si riallaccia alla Costituzione del 1948. E allora, ho voluto rileggere ciò che disse l’onorevole Ambrosini, relatore alla seconda Sottocommissione, nell’illustrare e difendere l’ex articolo 109, facendo rilevare come la potestà attribuita alla Regione non intacchi né diminuisca in alcun modo la potestà superiore e l’interesse generale dello Stato, non solo per la ristrettezza della materia e per la sua importanza meramente locale, ma anche per i limiti di potestà più generale che si pongono all’esecuzione di siffatta potestà legislativa e per i correttivi previsti per frenare l’eventuale azione del consiglio regionale che straripasse dai limiti della sua competenza, o che in altro modo apportasse una lesione all’interesse delle altre Regioni o dello Stato.
La legislazione dell’ex articolo 109 non era esclusiva, perché condizionata dalle suddette restrizioni, preventive e di sostanza, e dalle altre successive restrizioni derivanti dalla facoltà attribuita di impugnare le norme legislative deliberate dalle Regioni. Non possiamo dunque nascondere la preoccupazione di non pregiudicare i diritti per l’interesse superiore dello Stato o di singole altre Regioni. Credo che non sia un momento di retorica quello di compromettere l’unità dello Stato. Parliamo di una legislazione integrata che si svolga nell’ambito dei princìpi generali indicati dalle leggi dello Stato.
Siamo in grado, allora, di assicurare quell’uniformità indispensabile a garantire l’unità del Paese in taluni aspetti essenziali della legislazione e dell’amministrazione? Infatti, un conto è dare efficacia alle scuole, affidandole al governo delle Regioni, che certamente è più vicino al popolo e meglio ne comprende i bisogni, senza però sopprimere la funzione direttiva e coordinatrice del Ministero, un conto è prevedere diversamente.
Nella scuola sorge il problema del reclutamento del personale, del valore dei diplomi, del personale sotto il contratto dello Stato e dei programmi: quali programmi, e quale stato giuridico degli insegnanti? Il problema scolastico, come si vede, è di una certa gravità e la scelta non andrebbe valutata alla luce dell’articolo 33 della Costituzione, che sancisce la libertà di insegnamento. La potestà normativa delle Regioni è garantita, certo, dalla Costituzione, ma come viene fatta valere questa garanzia, di fronte a quale giudice? All’attuale Corte costituzionale o a quella necessariamente riformata che ricomprenderà i rappresentanti regionali? Questa sì che è una riforma urgente da apportare.
E come si affronta il problema del coordinamento tra le forze di polizia locali e quelle di polizia statali? Nella sanità – il presidente Fisichella lo ha ricordato poco fa – non va trascurato il problema epidemiologico. Esso era stato sollevato anche nell’Assemblea costituente, quando erano emersi, proprio in quella sede, il problema di alcune malattie, quale, ad esempio, la malaria ed altre malattie anche di carattere razziale.
E allora, nell’ambito della spesa sanitaria regionale, sembrerebbe necessario riconoscere allo Stato una competenza idonea e incidente sulla dinamica della spesa sanitaria regionale, attraverso un coordinamento e un monitoraggio rispetto a scelte che rischiano di riverberarsi sugli equilibri della finanza pubblica.
Non mi soffermerò sullo studio dell’ISAE, certamente una struttura governativa, che pure ha ampiamente illustrato i costi della riforma. Credo però che se un cittadino normale avesse letto “Il Giornale” di ieri e il “Corriere della Sera” di oggi avrebbe incontrato una qualche difficoltà a comprendere i costi della riforma.
Certamente la portata del disegno di devoluzione è di dimensioni definite straordinarie e allora dobbiamo valutare i rischi connessi all’attuazione di questa riforma costituzionale; i costi dipenderanno dalla quantificazione delle risorse umane necessarie a gestire e implementare le operazioni di decentramento delle funzioni.
Non possiamo sottovalutare i rischi che nella prima fase aumentino i costi per le dinamiche retributive, per la riqualificazione, per le consulenze, per la segmentazione normativa, per gli adempimenti tributari in ambiti territoriali diversi; basti pensare alle imprese e ai gruppi che possono essere costretti a fronteggiare normative contrapposte. Il quesito che dobbiamo porci è se le riforme di funzioni possano contribuire all’equilibrio di bilancio.
Inoltre, vi è il rischio di una crescita complessiva delle spese e dell’innalzamento della pressione fiscale a livello locale, come abbiamo già riscontrato nella sanità per le difficoltà a contenere le dinamiche di spesa. Costi certi e benefici difficilmente apprezzabili derivanti dal miglioramento dell’efficienza del settore pubblico regionalizzato richiedono un controllo dell’impatto finanziario del trasferimento delle funzioni.
Non si possono non riconoscere allo Stato una responsabilità finale e poteri di coordinamento e controllo, anche a tutela dei valori protetti dall’articolo 5 della Costituzione. Basti pensare alle responsabilità connesse al rispetto del patto di stabilità sottoscritto con l’Unione.
La frammentazione del processo decisionale propria del sistema federalista rende ancora più necessaria la garanzia di comportamenti finanziari dei vari livelli di governo coerenti con gli obiettivi di stabilità finanziaria e fiscale.
È indubbio che il federalismo è necessario per riqualificare le funzioni del Governo centrale. Quello che vogliamo è la definizione di un disegno organico di federalismo finanziario, mentre il decreto-legge n. 209 del 2002 e il patto di stabilità interno portano ad un restringimento dell’autonomia finanziaria.
Dobbiamo allora rispettare il doppio vincolo dell’efficienza e delle responsabilità. Il mio è solo un invito alla riflessione, un invito a non sottovalutare gli effetti della scelta che stiamo per compiere e i rischi conseguenti. Avendo la piena consapevolezza dello scenario futuro, dobbiamo evitare di realizzare una regionalizzazione a geometria variabile.
La devoluzione non è una risposta esaustiva al disordine provocato dalla riforma del Titolo V e va adeguata ad un processo che sarà necessariamente lento e complesso. Dobbiamo evitare di dare al Paese la sensazione che si voglia parcellizzare tutto. Dobbiamo fare riforme utili ai cittadini. Abbiamo posto la sfida sui contenuti, senza abbandonarci però alla logica del rifiuto; soprattutto, non si può negare alla maggioranza la possibilità di proporre un modello federale diverso da quello proposto dall’opposizione, anche se questo confligge con i limiti propri del sistema maggioritario. Non si può negare la facoltà di discutere sui contenuti, impedendo quei perfezionamenti indispensabili a fugare dubbi e preoccupazioni.
Stamane il presidente D’Onofrio ha indicato la via che riteniamo praticabile per rimuovere le preoccupazioni diffuse anche nella maggioranza, con un emendamento che, seppur limitato, assumerebbe un grande significato politico. Da parte nostra abbiamo una cultura autonomistica, che affonda le radici nel pensiero e nell’opera di Sturzo e che ha determinato le scelte regionalistiche nella Carta costituzionale, scelte che mantengono ancor oggi vitalità e freschezza.
Resta per noi il nodo dell’equilibrio, della sintesi tra autonomia e solidarietà. A ciò guardiamo con l’impegno di chi non vuole privilegiare gli egoismi, non vuole distruggere bensì costruire istituzioni solide, al servizio dei cittadini e del Paese. (Applausi dai Gruppi UDC:CCD-CDU-DE e FI e del senatore Carrara. Congratulazioni).