Lealtà vo’ cercando
L’intervista al sen. Eufemi qui riprodotta è ricavata dal libro di Roberto Corsi
“Lealtà vo’ cercando” (pagg. 225-231)
MAURIZIO EUFEMI, SENATORE
“il mondo è píeno di gente di buona volontà:
alcuní hanno voglia di lavorare, gli altrí
hanno voglia dí lascíartí
lavorare” (Roberto Frost)
Il sacrificio l’avevo fatto, eccome. Neanche dei più lievi, come mettermi la giacca nel giorno dell’ingresso ufficiale dell’estate, con annessa canicola. Non bastava. II commesso del Senato mi ha subito bloccato: “Spiacente, signore, ma ci vuole la cravatta. Se le va di metterla sopra la polo, eccola qua”. Alla imperitura fortuna di non badare all’etichetta si aggiungeva quella momentanea di avere come accompagnatore Maurizio Eufemi che, oltre a dare del tu alle leggi come Montuori lo dava alla palla, alle cravatte sa fare il nodo. Via libera, dunque, per gli ampi corridoi di Palazzo Madama, tutti tappezzati di rosso, per giungere al posto di combattimento del senatore.
Linguaggio troppo guerresco? Niente affatto, perché il senatore Maurizio Eufemi è un combattente di razza. Non ho la sensazione di essere di fronte ad un nobile, ma il mio interlocutore principe lo è davvero.
Non è una questione di sangue, ma una sorta di nobiltà honoris causa. Maurizio Eufemi è, per quelli che conoscono un po’ più da vicino i sacri palazzi, il principe degli emendamenti.
Prima di saltare il banco, nelle elezioni del 2001, è stato per decenni dietro le quinte a preparare il lavoro dei parlamentari democristiani, per evitare che facessero scena muta come alunni impreparati. Il bisogno si è fatto ancor più stringente in questi ultimi tempi. Sono troppi í legislatori che non sanno come si fa una legge. Grazie anche a quella elettorale, i requisiti per entrare in Parlamento sono del tutto simili a quelli richiesti ai preti per essere promossi monsignori: magnitudo corporís, ebetudo mentis, gratia episcopi. Occorre proprio tradurre? E sia: una bella pancia, un’intelligenza scarsa, la benevolenza del vescovo. Nel nostro caso, in ossequio alla laicità, il vescovo è sostituito dal capo.
Non per niente Eufemi, possedendo solo il primo requisito, stavolta ha rischiato grosso. Volevano rimandarlo dietro il banco, relegandolo in Piemonte, lui romano de Roma, in una posizione tutt’altro che agevole per l’elezione. Invece di abbattersi ed imprecare contro il destino cinico e baro e i capi, il nostro uomo si è messo di buzzo buono e nel suo collegio senatoriale ha fatto compiere un balzo felino al suo partito, l’Udc, ricapultandosi egli stesso nel nobile consesso che esprime (o dovrebbe) il fior fiore della saggezza italica.
Finalmente rilassato, siede sul divano che gli passa il convento di Franco Marini e inizia il suo racconto, senza perdere di vista il computer fisso e due portatili sempre accesi.
“Sono nato nel 1948, nel cuore della Roma cristiana. Ho frequentato la scuola Pontificia Pio IX, in via della Conciliazione. Fin da piccolo ho potuto cogliere l’importanza di Roma, la sua universalità. Era facilissimo per me vedere i cortei dei capi di stato che andavano in visita dal Santo Padre: Eisenhauer, Kennedy, Nixon. Ricordo che, tornando da scuola, passavo dal colonnato del Bernini e guardavo la Cappella Sistina per vedere se era stato eletto il successore di Pio XII o di Giovanni XXIII. Ho visto dal vivo il grande fermento del Concilio, con questa grande moltitudine di vescovi che andava in S. Pietro”.
“E la politica?”
“Vicino a casa mia, c’era la sezione territoriale. Anche quando andavo a scuola passavo davanti alla storica sezione Dc, in Borgo di Santo Spirito, quella di De Gasperi che abitava in via della Stazione S. Pietro, dove ancora c’è la lapide. Iniziai molto presto a partecipare al lavoro del gruppo parlamentare nell’ufficio legislativo. È stato un fatto importante per la mia formazione, con la nascita dell’interesse per la ricerca economica, per la formazione delle leggi, per i riflessi che ne derivano sulla società, per i regolamenti parlamentari, per il rispetto delle istituzioni. Ho cominciato a capire la complessità dei fenomeni che si muovono di fronte a noi. Negli anni `70 partecipavo alla vita della sezione. C’erano mille iscritti, assemblee molto partecipate nelle quali era palpabile il gusto del confronto fra le persone. Sono stati momenti di grande fertilità, perché la sede del partito era il momento delle grandi scelte sulle quali indirizzare la politica; era la fase del confronto tra la base e i quadri dirigenti del partito, il luogo dove si abbattevano le distanze sociali, il termometro della società, un utile indicatore per le scelte da compiere. “
“Quando avvenne il salto nella politica che conta”?
“Dal ’76 al ’79, ci fu il grande rinnovamento della Dc, con un terzo del parlamentari cambiati, la segreteria Zaccagnini, il governo di solidarietà nazionale. Nel gruppo parlamentare della Camera venne un giovane vicepresidente, Gerardo Bianco, che mi coinvolse più direttamente nella politica, mentre prima ero semplicemente un tecnico. Nacque il cosiddetto Gruppo dei 100, all’interno del quali c’era un nucleo di parlamentari, molto dinamico e attivo, che si chiamò Proposta con Mazzotta e Segni in prima fila, per contrastare la politica di solidarietà nazionale, di cui vedeva un limite e i pericoli. Quella politica aveva impedito un pericoloso conflitto sociale che poteva essere anche cruento, però generò un debito pubblico immenso, con un’onda lunga caricata sulle generazioni future. Nel 1979 Gerardo Bianco divenne presidente del deputati Dc, battendo Giovanni Galloni, e mi chiamò come assistente del gruppo parlamentare e suo personale e anche responsabile del dipartimento economico. Un lavoro di grandissima soddisfazione ed impegno, con orari ‘giapponesi’, spesso sacrificando i sabati e le domeniche, tempo libero, la cosiddetta qualità della vita. Oggi ho un po’ di rammarico nell’aver sottratto tempo alla famiglia e soprattutto ai figli. “
“Quando ti sei sposato?”
“Mi sono sposato giovane, nel ’73. Ho avuto la possibilità di fare una scelta a favore della famiglia, in senso pieno, anche con rinunce; nel senso che mia moglie preferiva curarla con grande attenzione. Ho avuto un maschio e una femmina, che mi danno grande soddisfazione. Il figlio fa l’economista a Milano. Ha fatto la sua strada per conto suo, senza aiuto di nessuno. L’altra figlia studia giurisprudenza. Se non ci fosse stato l’aiuto determinante di mia moglie, quella vita non avrei potuto farla. Mi sono laureato in Scienze Politiche qui a Roma con una tesi statistica, mantenendo un rapporto col mondo universitario. Facevo parte dell’osservatorio di politica economica insieme a Luigi Cappugi e al giovane Giovanni Goria, che diverrà presidente del consiglio e morirà poi precocemente. Si inventò un modo di fare politica fondata sulla analisi e sulla ricerca. Quello diventò anche un momento di grande lavoro culturale, con la produzione di schede, libri, elaborazioni che servivano come orientamento e supporto scientifico e culturale ai nostri parlamentari nelle commissioni e in aula. Non ci facevamo mai trovare impreparati, perché facevamo un’azione programmatoria delle questioni da affrontare, dalla fame del mondo, alla politica industriale, dalle manovre di finanza pubblica, ai problemi del settore automobilistico, dalle partecipazioni statali alle politiche settoriali, dalle questioni fiscali alla spesa sociale, alle singole questioni. “
“Sempre col vento in poppa?”
“No. Nell’83 la Dc perse il 4,5% e 40 parlamentari. Il capro espiatorio della sconfitta lo fece Gerardo Bianco che venne esiliato in Europa. Per me fu un momento di riflessione. Venni sempre coinvolto a livello parlamentare, mantenendo la responsabilità dell’ufficio economico e finanziario, però la gestione di Virginio Rognoni e poi di Mino Martinazzoli mi lasciava molto perplesso. Era troppo appiattita e subordinata sul partito, la storica autonomia del gruppo parlamentare veniva meno anche per la straripante fase della gestione demitiana. Eppure anche in quella fase riuscimmo a fare una grande battaglia sul regolamento parlamentare in ordine al voto segreto, mantenendolo su alcune materie. Dal 1985 con Gerardo Bianco mettemmo in piedi una nuova rivista, di tipo culturale, monotematica. Si chiamava “Fondamenti” ed aveva come direttori appunto Gerardo Bianco, Valerio Verra, un grande studioso hegeliano, e Massimiliano Pavan, un grande cultore dell’ellenismo. Era per me una valvola di sfogo, la compensazione per quello che non poteva più offrire un ambiente parlamentare che pure mi dava il pane della vita, un pane generoso. “
“Quant’è durata questa esperienza?”
“Fino all’inizio degli anni 90, quando intervenne la crisi della Dc. La si poteva palpare perché vedevi che la gente era distratta, il personale politico, i parlamentari, i sottosegretari non tenevano più i contatti con le persone, il piccolo problema non veniva affrontato. Però noi come gruppo parlamentare, avendo una vita a se stante rispetto a quella del partito, mandavamo ancora avanti una elaborazione culturale, fatta di convegni sulle privatizzazioni, sulla logistica, sui trasporti. Poi arrivò il terremoto di Tangentopoli. La classe dirigente era traumatizzata, ma nonostante ciò dimostrò una grandissima dignità, come quando Giuliano Amato fece una manovra di 92.000 miliardi, pur sapendo che quella manovra avrebbe penalizzato il consenso della propria base elettorale. Quanto alla legge elettorale maggioritaria, il padre del mio attuale collaboratore, il Prof. Ornello Vitali, un grande statistico economico con grande sensibilità politica, fece un’elaborazione e cercò inutilmente di farla vedere a Martinazzoli. La vide però Castagnetti. Gli disse: con questo sistema elettorale la Dc non prenderà un deputato. I fatti gli dettero ragione.”
“E il rapporto con Gerardo Bianco?”
“Adesso ci arriviamo. Nel ’92 Bianco ridiventò presidente del gruppo, però i rapporti fra noi si erano un po’ deteriorati, anche perché lui si era molto avvicinato alle posizioni della sinistra interna. Aveva operato nei fatti una rottura con la propria posizione fortemente ancorata alla liberal-democrazia sostenuta e difesa per oltre un ventennio, con scelte coraggiose ed assunzione di responsabilità che sarebbero state necessarie anche in quella fase politica dove si stava consumando una tragedia. Nel `94 io rimasi ancorato allo scudo crociato, che restò la mia stella polare, anche se mi tiravano per la giacca per passare con il Ccd o ad altri partiti. Nella fase della rottura del Ppi, mi accorsi subito che la posizione di Martinazzoli era subalterna ai progressisti. Berlinguer chiamava Andreatta, che era capogruppo del Ppi, e sostanzialmente dava gli ordini di quello che doveva fare la mattina. Buttiglione si preparò al congresso e lì si vide chiaramente che una parte del Ppi non voleva subire la posizione di subalternità nei confronti della sinistra. Io lo sostenni nella fase della scissione, difendendo i 7 parlamentari che restarono con lui. Assistetti ad una drammatica riunione in Via Uffici del Vicario, prima del famoso consiglio nazionale della scissione. Il direttivo del gruppo parlamentare, guidato da Andreatta, con Mariolina Moioli vicepresidente, doveva vedersi presso il ristorante Piccola Roma. Invece a mezzogiorno Andreatta ricevette all’ufficio del gruppo parlamentare Bianchi, Merloni e Prodi, con un gruppo di fedelissimi sostenitori della discontinuità. Quella discontinuità che li ha portati dalla DC, al PPI, alla Margherita, all’Unione, al Partito Democratico, all’infinito… Fu imposta la candidatura del professore bolognese. Era evidente la rottura, perché significava bypassare il segretario politico che era Buttiglione e lanciare il guanto di sfida: una linea diversa rispetto a quella stabilita dagli organi del partito. Quindi mentre aspettavamo al ristorante, a 50 metri di distanza, succedeva la rottura. Dopo ci raggiunse Andreatta e, come finzione estrema, io venni delegato a scrivere un comunicato come se non fosse accaduto niente. Era il massimo della ipocrisia, lo strappo finale. Dopo, con gli accordi di Cannes, lo scudo crociato rimase a Buttiglione, anche perché gli altri se ne vergognavano.
Io avevo difeso il Ppi e la Dc fin dall’inizio della legislatura, quando volevano relegare il gruppo parlamentare in un sottoscala. Soltanto la mia reazione costrinse Andreatta a cambiare idea, ottenendo una sede più rispettosa. Dentro la sede c’erano una serie di carte, documenti, verbali delle assemblee ordinati dal 1947, ma molto materiale è andato distrutto. In un discorso dopo la guerra, pubblicato negli ‘Scritti politici’ De Gasperi disse: ‘hanno distrutto i nostri archivi, ma non la nostra memoria’. Mi tornavano alla mente quelle parole. In quel momento si stava riproponendo la stessa cosa. Sono riuscito a salvare una parte dei documenti, conferendoli all’archivio della Camera prima e alla Fondazione Sturzo poi”.
“A questo punto iniziò la storia del Cdu”.
“Sì. A scissione consumata, mi avvicinai ancor più a Rocco Buttiglione che, da giovane parlamentare, aveva bisogno di essere aiutato e guidato sul piano procedurale e parlamentare. Rimasi colpito dal fatto che la nostra storia veniva difesa da chi in fondo non ne aveva fatto parte pienamente. Si sperava che dopo l’accordo elettorale con il Ccd nelle elezioni del ’96 si procedesse spediti verso l’unificazione, ma ci trovammo di fronte allo scoglio della Bicamerale. Mastella pretendeva di essere lui commissario, invece vennero messi Rocco e Pierferdinando Casini. Da quel momento nacque la fibrillazione di Mastella che colse l’occasione dell’idea cossighiana dell’Udr per accelerare quel processo e collocarsi nel centrosinistra. “
“Vuoi dire che Mastella forzò un po’ la mano a Cossiga?”
“Certo. Io ricordo benissimo che Cossiga voleva dare esclusivamente l’appoggio esterno, Mastella e i suoi invece cercarono di mettere in difficoltà il governo Prodi per accelerare la caduta e per inserirsi subito nel nuovo governo. Da grande questione di politica estera divenne questione di bottega. L’idea dell’Udr aveva un altro significato ma venne stravolta da questa bramosia di potere. Buttiglione e i suoi uomini, come Teresio Delfino, uscirono presto dal governo D’Alema perché non c’era nessuna prospettiva per la nostre posizioni.
La stagione del Cdu è stata molto intensa.
Pur essendo un piccolo gruppo, assumevamo iniziative politiche importanti, si produceva molto, con grande entusiasmo “.
“Però ci sono voluti sei anni per fare l’Udc.”
“Perché c’è stato il problema dei posti, di non volersi mettere in discussione, di non voler fare un passo indietro. Tutti vogliono avere una rappresentanza proporzionale in base a qualcosa di aereo, di fittizio. Invece le persone andrebbero valutate per il lavoro che riescono a fare. E non lo dico per me. Noi dovevamo puntare su un ceto politico più disinteressato. Anche il successo che abbiamo avuto nel 2006, con un voto cattolico che ci ha premiato, richiede un impegno sistematico, coerente, continuo. Per ora siamo partiti bene. Abbiamo fatto la grande battaglia sulla legge 40, ma all’inizio eravamo in pochi a muoverci. Quando abbiamo fondato il comitato paramentare “Scienza e Vita” al Senato non c’era tutto questo fermento. Abbiamo fatto la stessa battaglia per le radici cristiane sull’Europa, proponendoci come leadership culturale. Anche sulla vicenda Mussi, che riguarda la sperimentazione sugli embrioni, abbiamo assunto l’iniziativa presentando una mozione parlamentare per primi.”
“Pare di assistere al paradosso di un partito di impronta buttiglioniana, nel quale però Rocco conta sempre meno. O sbaglio?”
“È un’impressione giusta, anche se dobbiamo dire che su queste tematiche Casini ci ha messo tanta determinazione, sia in campagna elettorale, sia alla Camera. Anche adesso. Però questa forte determinazione buttiglioniana si deve trasferire anche in tutta la dirigenza e in tutta l’articolazione del partito. Sono convinto che la sfida per la costruzione del partito dei moderati passa per questo.”
“Ma Cesa dice che il partito dei moderati c’è già ed è l’Udc. Siamo allo splendido isolamento?”
“Sono convinto che il partito aperto sia la condizione per crescere nei consensi, altrimenti rischiamo di perdere anche quello che abbiamo conquistato. La gente ci guarda con interesse, però questo richiede dei passaggi coerenti. Ad esempio non si può essere un partito di cooptati.
Non solo. Bisogna anche che si superi la fase emergenziale in alcune situazioni locali, che ci sia una maggiore esaltazione della democrazia interna. Il personalismo della politica ha coinvolto anche il nostro partito. È vero che i tempi sono cambiati, però è necessario che la rete partecipi all’elaborazione culturale e politica. “
“Qual’è la tua esperienza parlamentare? La crescita esponenziale di decreti legge, legge delega, limitano ancora di più la già scarsa possibilità di intervenire.”
“Queste difficoltà ci sono. Certamente c’è stato uno spostamento dei poteri dal parlamento al governo, perché è la cosa più semplice. La centralità parlamentare come la intendevamo noi negli anni passati non c’è più. Però per uno come me, attento alle procedure, ai regolamenti, al diritto parlamentare, forse si aprono più strade che per altri. Certo, questo è un lavoro duro. Significa sacrificare talvolta il pranzo e la cena e il dopocena per prepararsi, studiare, avere quei collegamenti per conoscere le istanze che vuoi rappresentare. Poi bisogna farle entrare in un circuito informativo e decisionale che è sempre difficile, ma se hai delle motivazioni forti qualcosa riesci a spuntare. La passata legislatura sono riuscito a far approvare diverse leggi che riguardavano il Piemonte, dove ero stato eletto. Sono stato chiamato – ed è stata per me una grande soddisfazione – come relatore della legge sul risparmio muovendomi su un terreno complesso, con centinaia di disposizioni e con intrecci complessi e difficili.
Quando serve bisogna saper dire dei no ai partiti e alla coalizione e non smarrire la propria identità.”
“Sintetizzo il tuo messaggio così: in una società sempre più complessa bisogna lavorare seriamente sui problemi. Ma, obietto, come può farlo un Parlamento come questo fatto di cooptati?”
“Noi dell’Udc abbiamo avuto un risultato grandissimo nel rideterminare il proporzionale. Ma questo sistema avrebbe richiesto un’autodisciplina dei partiti che tante volte non c’è stata. I partiti si sono più protesi a risolvere qualche problema, anche previdenziale, di questo o di quello, piuttosto che a favorire una qualità che è utile al paese. Prima un parlamentare veniva da una serie di passaggi elettorali sempre crescenti: circoscrizione, comune, regione ecc. C’era un allenamento istituzionale a interpretare le esigenze della comunità che ti aiutava nello svolgimento delle tue funzioni. È certamente più facile far approvare delle leggi che provengono dal governo rispetto a quelle di iniziativa delle singole persone. Ma il rischio è quello di far passare leggi che vengono dalle lobby esterne al governo con uno spostamento delle funzioni che diventa pericoloso. “
“Continuerai a fare il principe degli emendamenti anche in questa legislatura?”
“Certo. Perché in questo caso principi non si nasce, ma si diventa”.