Articolo sulle Banche Popolari comparso sulla rivista “Politica della Cooperazione”, curata dall’Associazione nazionale fra le Banche popolari.
Le Banche Popolari italiane riuniscono oltre un milione di soci e sono al servizio di circa 10 milioni di clienti, sono parte integrante ed attiva di un movimento europeo che conta circa 4.500 aziende, 60 milioni di soci, 140 milioni di clienti e 60.000 sportelli.
Le caratteristiche di prossimità e mutualità sono quelle che differenziano maggiormente l’operatività delle Banche Popolari rispetto alle altre banche. La mutualità delle Banche Popolari deriva da precisi principi costituzionali, d’altronde, che le banche popolari siano di pieno diritto cooperative mutualistiche, è stato definitivamente riconosciuto, oltre che dal legislatore nazionale,
anche dalla Commissione europea. Se tale mutualità non può dirsi esclusivamente sostanziata nella previsione della gestione di servizio in favore dei soci, diventano tratti distintivi del rapporto di cooperazione l’interesse dei soci ad ottenere finanziamenti e/o investire nella prospettiva di un utile temperato dalla coesistenza di scopi di incentivazione di economie individuali e del territorio di riferimento della banca. La mission delle Banche popolari risiede, infatti, nella capacità di coniugare la mutualità diretta verso il singolo socio, seppure non prevalente rispetto all’attività complessiva, con la mutualità collettiva, con significative iniziative a favore dei territori di insediamento.
La peculiare governance delle Banche Popolari (basata su voto capitario, limite al possesso azionario e il gradimento per l’ammissione a socio) lungi dal rappresentare possibile elemento di autoreferenzialità del management, consente la realizzazione della funzione sociale tipica di queste banche che e il sostegno alle piccole e medie imprese presenti nei territori serviti. Il modello strutturale della Banca Popolare consente agli amministratori, da un lato, di adottare politiche gestionali dirette
alla creazione di valore nel lungo periodo; dall’altro, di operare interventi nelle economie locali instaurando relazioni creditizie durature.
La forma societaria cooperativa non è un impedimento per le operazioni di fusione ed acquisizioni nazionali e transfrontaliere; non è di intralcio al funzionamento dei mercati, ma ne esalta la efficienza e la stabilità, permettendo la competizione tra forme di impresa alternative.
Per quanto riguarda i limiti al possesso azionario, in particolare, Il tentativo di creare soglie diverse per le popolari quotate e non quotate compromette l’unità della Categoria e della relativa disciplina, aprendo la strada ad una deriva delle Popolari maggiori verso la trasformazione in S.p.A. e verso la scalata da parte dei maggiori gruppi nazionali e non.
Tutto ciò non significa che non si possa innovare rispetto al limite al possesso azionario prevedendo un consistente innalzamento dello stesso, fino al doppio o al triplo di quello attuale, lasciando alla autonomia statutaria la fissazione entro tale massimale del limite ritenuto congruo. E’ anche ipotizzabile, volendo, un limite ancor più elevato per gli OICR e per i fondi pensione che partecipano al capitale social delle Popolari quotate.
In virtù dell’indissolubile legame tra i connotati fisionomici caratterizzanti le Banche Popolari e le ragioni d’interesse generale che attraverso essi vengono perseguite, la vocazione localistica di queste banche – proprio perché connessa alla forma
societaria cooperativa rivestita e alla peculiare governance sinteticamente descritta – rimane inalterata indipendentemente dalle dimensioni e dalla eventuale quotazione delle singole Banche Popolari. Fatte tali doverose premesse, è opportuno fare alcune osservazioni quanto alle singole proposte di riforma si possono puntualizzare le seguenti osservazioni:
a) Sollecitazione delle deleghe: deve respingersi fermamente la proposta di rendere applicabile anche alle banche popolari quotate la disciplina della sollecitazione delle deleghe di voto prevista dal TUF per le società per azioni quotate in quanto diretta a svuotare di sostanza il principio del voto capitario, minandone l’efficacia. Peraltro si può, al limite, prendere in considerazione il proposito di accrescere la rappresentatività delle assemblee attraverso un più ampio ricorso alle deleghe,
sempre nel limite massimo previsto dal Codice civile, fermo restando il comma 4 dell’art. 137 del Tuf.
b) Trasformazione in S.p.A.: quanto al proposito di semplificare le trasformazioni delle banche popolari in società per azioni nonché la partecipazione delle banche popolari stesse ad operazioni di ”fusione trasformante”, non si può non porre l’accento sulla illegittimità di qualsivoglia provvedimento, che possa sottrarre alla competenza delle assemblee decisioni in merito ad un
modello in via autonoma adottato da soggetti privati nell’esercizio di una attività d’impresa.
c) Clausola di gradimento per l’ammissione a socio: La clausola di gradimento per l’ammissione a socio, lungi dal rappresentare un principio “anacronistico” favorisce la formazione di compagini tendenzialmente più coese e motivate rispetto ad altre realtà societarie. ll gradimento del socio è tuttora espressione della natura cooperativa della società, in cui conta l’elemento personale. Quanto alla presenza di investitori istituzionali negli Organi sociali, non si capisce dove sia il problema. Nessuno contesta l’opportunità della presenza di rappresentanti degli OICR negli organi di amministrazione-controllo. Si contesta il metodo di elezione, poiché la nomina, come per tutti gli altri componenti, non può avvenire al di fuori dell’assemblea dei soci. Peraltro, si potrebbe giungere ad un testo che garantisca la presenza di almeno un esponente degli investitori istituzionali negli organi sociali delle Banche Popolari quotate, lasciando alla autonomia statutaria la determinazione delle modalità della relativa nomina da parte dell’assemblea. Un intervento urgente è quello relativo al peso dei dipendenti negli organi di direzione delle banche popolari. Sarebbe opportuno limitare tale rappresentanza attraverso una pre-assemblea, sul modello cooperativo europeo che limita al 10-15% la presenza degli stessi.
In conclusione, le maggiori popolari hanno saputo mantenere e rafforzare i legami con il territorio e con la clientela di riferimento, hanno superato le crisi, hanno saputo trovare le soluzioni idonee al loro modello originale e possiedono le risorse per affrontare con coraggio e creatività le nuove sfide poste dalla trasformazione del mercato.
Come è stato recentemente ed autorevolmente affermato si deve chiedere “al legislatore e al regolatore di tutelare proattivamente la ricchezza rappresentata dal pluralismo delle forme d’impresa. Evitando il rischio del pensiero unico. Evitando il pericolo che l’unico paradigma al quale riferirsi quando si legifera, si governa, si controlla, si studia, si informa, sia la società di capitali”.
E’ dunque un modello vincente, che vogliamo salvaguardare. Meglio nessuna riforma che una cattiva e dannosa riforma”
Sen. Maurizio Eufemi