Giuseppe Pella
La storia di Giuseppe Pella è una storia complessa (Valdengo, 18 aprile 1902 – Roma, 31 maggio 1981). Sconosciuta alle giovani generazioni, ma con grandi meriti storici. Di umile famiglia contadina a 17 anni si iscrive al PPI. E’ allievo di Einaudi alla facoltà di Scienze Economiche nell’Università di Torino. Diviene stimato commercialista nel distretto tessile biellese. Poi docente di contabilità di Stato nelle Università di Torino e Roma.
Giuseppe Pella, un “liberista cristiano”, è stato definito da Gabriella Fanello Marcucci in un volume pubblica per Rubbettino. E stato uno degli artefici della ricostruzione economica dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale, tanto che si parla di «linea Pella» a proposito del rigore monetario, della severità nei conti pubblici, del favore per il multilateralismo e la liberalizzazione degli scambi e dei pagamenti, obbedendo ai quali l’economia progredì rapidamente fino al miracolo economico.
L’archivio Pella è temporaneamente custodito dalla Cassa di Risparmio di Biella. Pur nella grandezza del personaggio. Non v’è una grande storiografica. Neppure la Camera e il Senato hanno pubblicato i suoi discorsi parlamentari nonostante Pella abbia ricoperto incarichi di altissimo rilievo nella fase della ricostruzione postbellica e dell’impetuoso sviluppo degli anni cinquanta.
Ha scritto Nicola Guiso il 2 giugno 1981 “certa stampa ha tentato di accreditare una immagine singolare quella di un uomo in prestito alla DC dell’area liberal-democratica, competente, ma estraneo alle idee e alle tradizioni dei cattolici democratici”. Non era così.
In realtà non si era mai piegato alle prescrizioni della dottrina sociale preso come è sempre stato dalle preoccupazioni sul pareggio di bilancio.
Nel 1945 porta la sua esperienza, la sua cultura, commerciale e finanziaria. Schivo, riservato, non popolare, un approccio discreto alla politica.
Non va dimenticato che aveva partecipato alla azione clandestina predisponendo i piani finanziari, assicurando e regolando il finanziamento delle formazioni garibaldine, tramite dunque tra parte del mondo imprenditoriale e esponenti della Resistenza.
Nel 1945 si iscrive alla DC.
Su Vita Biellese scrisse quell’anno un articolo sulla parità della lira nel nuovo ordine internazionale e sulle misure per frenare l’inflazione, per sorvegliare la politica bancaria, contro le indulgenti aperture del credito, per la determinazione periodica dei cambi provvisori ai fini delle importazioni e delle esportazioni che suscitò interesse . La situazione della lira era collegata al livello generale dei prezzi. Guardava alla produttività per mettere ordine nell’economia dissestata dalla guerra.
V’era chiarezza nelle posizioni da assumere.
Restò impopolare. Entrò nelle liste alla costituente all’ultimo momento, per le pressioni del mondo economico.
Va ricordata la corrispondenza con Sturzo nella fase elaborativa della Cassa per il Mezzogiorno. (28 ottobre 1949). Sturzo richiama il problema Nord Sud la necessità di finanziamenti pluriennali insistendo sulle bonifiche agrarie, sviluppo industriale e energia idro e termoelettrica. Tutto ciò in vista dell’esame collegiale dei provvedimenti! Pella risponde non solo per formalità, ma con la concretezza della sua azione, assicurando il funzionamento della strumentazione bancaria per la concessione dei finanziamenti.
Assunse una posizione ferma nella linea di riordino e consolidamento degli organi di assestamento e ridefinizione delle procedure di riscossione che doveva riproporzionare le entrate rispetto alla entità complessiva dei redditi.
Il 19 settembre 1946 avvertì l’esigenza di non stampare altra carta moneta e guardare ad un politica fiscale per il pareggio.
Al Tesoro fu fedele continuatore delle politiche einaudiane caratterizzando le scelte di fondo che appartenevano prima alla economia e poi alla politica.
Era assertore di una politica che chiedeva di fare il “passo secondo le gambe” e dunque contrario a tutte le spese senza compensazioni nelle entrate. (Corriere della sera 2 giugno 1981)
Dopo le esperienze governative ricoprì la carica di Presidente della Commissione speciale sull’articolo 81 della Costituzione.
La sua posizione ferma lo faceva apparire come nemico delle politiche sociali coraggiose. Si scontrò con Pacciardi sulla politica estera, in occasione della guerra di Corea.
Operò saldo nei principi.
Non è mai entrato neppure una volta nella sterminata enciclopedia dello “scandalismo” riconobbe Repubblica il 2 giugno 1981.
Incappò nella vicenda titina facendo emergere un lato nazionalistico.
Espresse forti riserve sul nuovo corso politico di centro sinistra.
Divenne paradossalmente direttore di una rivista “Stato sociale” che guardava all’economia vista con una angolatura tecnico scientifica.
La storia di Pella è la storia di una protagonista della storia del Paese nella fase della ricostruzione e della fase di uno straordinario sviluppo economico. E’ stato un costituente, deputato per quattro legislature, senatore per due Ministro delle Finanze nel IV Governo De Gasperi poi Ministro del Tesoro nei governi centristi di De Gasperi dal 1948 al 1953, ricoprendo anche l’interim del Bilancio,
Inoltre fu Presidente del Consiglio dei ministri nel periodo dal 17 agosto 1953 al 18 gennaio 1954 e più volte ministro.
schierandosi con l’ala “destra” del partito.
Nei successivi governi dello statista trentino è ministro del Tesoro (V, VI, VII, VIII, 1948–1953), ricoprendo in alcune fasi anche l’interim del Bilancio;
Come Ministro del Tesoro persegue una politica liberista e monetarista, in continuità con la linea tracciata da Luigi Einaudi, di cui era stato allievo a Torino. Viene duramente criticato dalle sinistre d’opposizione (PCI e PSI) e anche dal gruppo di Dossetti, La Pira ed Vanoni.
Fu tenace assertore della solidarietà occidentale dandone una interpretazione dinamica e coerente con gli interessi nazionali. E’ Pella che conia il termine “neoatlantismo” fino a contrastare le ingerenze Usa nella politica economica italiana quando tendono a condizionare gli aiuti del Paino Marshall alle logiche della espansione.
piano Marshall.
Gli esperti americani del piano Marshall, giunti a Roma per controllare l’utilizzazione dei fondi, rimasero sconcertati del fatto che non un dollaro era stato speso per una politica di spesa pubblica di stampo rooseveltiano: i fondi erano infatti stati utilizzati esclusivamente per mettere ordine nella finanza pubblica e per stabilizzare il bilancio dello Stato seguendo il pensiero di Luigi Einaudi.
Dopo la crisi politica del 1953, con il fallimento dell’ultimo governo di Alcide De Gasperi (che non ottiene la fiducia), il 17 agosto 1953 il presidente della Repubblica Einaudi, che è stato suo insegnante all’università, lo incarica di formare un governo di cui viene sottolineata la provvisorietà; è denominato infatti governo d’affari o governo amministrativo il cui unico compito è quello di arrivare all’approvazione della legge di bilancio (che all’epoca doveva avvenire entro il 30 ottobre di ogni anno), senza nessuno scopo politico. A rafforzare il carattere tecnico del gabinetto, ne sono chiamati a far parte alcune personalità estranee alla politica (l’avvocato dello Stato Salvatore Scoca alla Riforma burocratica, l’alto magistrato Antonio Azara alla Giustizia, l’ingegnere Modesto Panetti alle Poste, eccetera).
In tale esecutivo Pella assume l’interim degli Esteri e del Bilancio. Come ministro degli Esteri ha uno scontro con il presidente jugoslavo Tito, il quale minaccia di annettere Trieste alla Jugoslavia. Pella minaccia di inviare le truppe sul confine orientale. La crisi che poteva sfociare in un confronto militare venne fatta rientrare dopo molti sforzi diplomatici delle potenze
Il suo interventismo suscitò reazioni opposte in Parlamento e negli organi di stampa: monarchici e MSI lo sostennero, i partiti di sinistra, e soprattutto il PCI, lo accusarono di nazionalismo. Buona parte della DC rimase fredda anche perché i governi di Londra e di Washington volevano mantenere buone relazioni con la Jugoslavia anche a costo di penalizzare l’Italia. Gli organi di stampa più sensibili alla questione dei confini orientali, invece, additarono Pella come un patriota e come statista coraggioso. Buona parte dell’opinione pubblica apprezzò il suo operato.
Pella si dimise il 12 gennaio 1954.
Dopo l’esperienza alla guida del governo, si dedica all’attività di partito partecipando alla fondazione di una corrente di destra, “concentrazione”, alla quale aderisce, tra gli altri, Giulio Andreotti. In tale veste, è uno dei promotori dell’elezione di Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica contro il candidato del segretario della DC Amintore Fanfani, che è l’indipendente Cesare Merzagora. Eletto Gronchi, Pella è candidato naturale alla Presidenza del Consiglio, ma il nuovo presidente della Repubblica gli preferisce Antonio Segni.
È ministro degli Esteri nel governo Zoli, in cui è anche vice presidente del consiglio (19 maggio 1957 – 1º gennaio 1958) e nel secondo governo Segni (15 febbraio 1959 – 23 marzo 1960), e ministro del Bilancio nel terzo governo Fanfani (26 luglio 1960 – 21 febbraio 1962).
Ostile alla politica fanfaniana di alleanza col PSI, a partire dal 1962 decide di tenersi in disparte. Torna al governo come ministro delle Finanze nel primo governo Andreotti (17 febbraio – 28 giugno 1972), un monocolore DC che, non avendo ottenuto la fiducia, si limita a gestire gli affari correnti fino alla convocazione delle nuove Camere e alla costituzione del nuovo governo.
Nel corso degli anni settanta, dal 1973 al 1976 è presidente e poi presidente onorario dell’Ania (Associazione nazionale fra le imprese di assicurazione).
Bell’uomo dai modi squisitamente signorili, Pella fu una delle personalità politiche più popolari nell’Italia del dopoguerra.
Presiedette l’associazione Piemonte – Italia e il comitato organizzatore di Italia ’61. Morì a Roma nel 1981.
E’ esistita una Democrazia Cristiana di cui si è quasi persa la traccia, stretta fra l’ ultima stagione di De Gasperi e l’ avvio dell’ era fanfaniana. Quella Dc avrebbe potuto assumere la fisionomia di un partito cattolico liberale con venature nazionaliste, aperto a destra, addirittura diffidente verso gli alleati occidentali. Un partito fondato sul piano economico su solidi presupposti liberisti, figlio di un’ Italia frugale, lontano dalle suggestioni keynesiane che avrebbero ispirato in seguito l’ epoca di Amintore Fanfani e la filosofia del centro-sinistra. Giuseppe Pella incarnava come nessun altro questo partito che non fu, se non per un breve momento. E oggi, cinquant’ anni dopo, è giusto rileggere quelle pagine quasi dimenticate. Anzi, è necessario farlo se si vuole ricostruire la storia del «centrismo» anche nei suoi aspetti più trascurati. Per collocare nella sua giusta luce anche una figura come Pella, la cui parabola politica può apparire oggi anacronistica, ma è tutt’ altro che irrilevante. Il suo fu un tentativo – fallito – di far cambiare strada alla Dc; o meglio, di impedire che la stagione dei «giovani leoni», dopo De Gasperi, coincidesse con l’ avvento di quella che in seguito si sarebbe chiamata «partitocrazia». Era, certo, un’ altra Italia. Giuseppe Pella era un notabile legato alla tradizione del Partito Popolare quando fu chiamato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi a formare il suo governo «d’ affari». Quello che oggi si chiamerebbe un governo «del presidente», comunque di transizione. Siamo nell’ estate del ‘ 53, è appena naufragata l’ ipotesi della legge maggioritaria (la famosa «legge truffa» che poi tanto truffaldina non era) e De Gasperi ha fatto un passo indietro. E’ cominciato, anche se pochi se ne sono accorti, il declino del centrismo. I due piemontesi, Einaudi e Pella, sono legati da un vincolo profondo di tipo intellettuale. Condividono la stessa dottrina economica. Pella è un uomo ancora giovane: ha 51 anni, essendo nato il 18 aprile (data fatidica…) del 1902. Ma non è inesperto. E’ stato a lungo ministro degasperiano, prima alle Finanze, poi al Tesoro: sempre nel solco liberale di Einaudi. Che il capo dello Stato scelga lui per un esecutivo di passaggio sembra quasi naturale, anche se De Gasperi – per non lasciare dubbi – si affretta a coniare una definizione che resterà nella memoria: «governo amico». Come dire che la Dc lo vota, ma non lo ama e si prepara a chiudere la parentesi alla prima occasione. Di certo De Gasperi ha dato voce alle inquietudini delle correnti democristiane che si sono sentite spiazzate. E Pella non fa nulla per rassicurarle, anzi. Con una temerarietà senza uguali nella storia della prima Repubblica, il presidente del Consiglio che guida un monocolore votato dai partiti centristi, con l’ astensione di monarchici e missini, prende la fiducia il 17 agosto e il 29, dodici giorni dopo, ha già spedito le truppe alla frontiera jugoslava, allo scopo di difendere Trieste dagli appetiti di Tito. Si dice che per evitare guai i soldati fossero equipaggiati con fucili senza munizioni, ma forse è solo una leggenda. In ogni caso i capi-corrente dc s’ innervosiscono. Intuiscono che il piemontese Pella, uomo tutto d’ un pezzo senza una base propria nel partito, sta cercando di scavalcarli presso l’ opinione pubblica, nel tentativo di intercettare il vento nazionalista che soffia nel paese, sullo sfondo della questione ancora irrisolta di Trieste. Non sapremo mai dove Pella avrebbe portato la Dc, se l’ operazione fosse riuscita. Ma a chiudere in fretta la sua esperienza ci pensa Mario Scelba, uomo di De Gasperi. A Novara, la fatal Novara, Scelba pronuncia la sentenza di morte per il governo amico: «L’ isterismo antinglese e antioccidentale rivela la povertà di una concezione politica e una visione dei problemi che già condusse alla sconfitta». Oggi sarebbe un linguaggio educato, ma per il costume dell’ epoca equivaleva a una bomba. La Dc aveva scelto il suo futuro. Elzeviro di Stefano Folli sul Corriere della Sera
Stabilità monetaria, articolata politica di investimenti, e riassetto del bilancio per eliminare l’inflazione che pesa sulla stabilità della moneta. Erano le sue linee guida.
Il Parlamento fu a sostegno del governo. La commissione Finanze guidata da La Malfa era in piena sintonia e fu ringraziata pubblicamente.
Disse Pella in Parlamento “Scarsa riconoscenza possono sperare coloro che assumono l’impegno di difendere la moneta. La impopolarità di oggi per poter andare al giudizio di domani. Il giudizio del popolo italiano che ci chiederà se abbiamo salvato tutto il sistema finanziario e il sistema monetario”.
A conclusione della esposizione economico-finanziaria il 17 giugno 1949 affermò quindi : “c’è una certezza: la rinascita del nostro Paese attraverso quegli sforzi del nostro popolo, in cui taluno non crede, ma in cui noi sappiamo di dovere e potere credere”
Diede seguito all’annuncio fatto nella esposizione finanziaria in cui illustrò la politica del tesoro tesa a favorire la riduzione del costo del denaro e l’afflusso di risparmio verso le iniziative private realizzando l’intendimento di agevolare la costruzione di istituti regionali per finanziare le pmi nei limiti di una sana tecnica bancaria.
Si imponeva come misura per una equa distribuzione del risparmio fra i settori produttivi nell’obiettivo del programma del paese di facilitare la ricostruzione economica del paese. Orizzonte di medio periodo, facilitazioni fiscali e limiti alle erogazioni del credito erano principi invalicabili.
Non c’era la cultura della marmellata dei provvedimenti omnibus ma dei provvedimenti settoriali, specifici, preparati, studiati. Nel 5° de Gasperi da Ministro del tesoro presentò 88 disegni di legge.
Europeista convinto in qualità di governatore del Fondo Monetario internazionale propone un piano per l riduzione dei dazi tra i paesi europei nella prospettiva dell’Unione doganale, ponendolo come figura si spesso re internazionale. Succede quindi a De Gasperi come Presidente della CECA.
Fu Presidente del Comitato Italia 61.
La storia di Pella di intreccia con quella di Einaudi, Presidente della Repubblica, Menichella Governatore della Banca d’Italia.
Pella interverrà su Einaudi per cercare di soprassedere all’idea di Menichella di lasciare favorendo la sua sostituzione con l’accoppiata Carli Baffi. Di ciò troviamo riscontro nei documenti di Menichella.
Da semplice deputato presentò nel 1967 la proposta di legge sugli indennizzi per le aziende elettriche trasferite all’Enel nazionalizzate con la legge del 1962 n. 1643 rispetto alla distinzione fatta in società quotate, non quotate e società semplici accomandite ditte individuali. Dopo i rilievi della corte dei conti per rispettare una par condicio economica al fine di orientare il valore delle stime rispetto al valore delle aziende ristabilendo un irrefutabile principio di parità per le aziende nazionalizzate. Per non trasformare una espropriazione in una confisca proprio in direzione di quei piccoli operatori che furono pionieri nella elettrificazione rurale. Lo considerava un atto di giustizia riparatrice.
Roma, 27 settembre 2011