Bretton Woods
Nel luglio scorso si è celebrato il 70° anniversario degli accordi di Bretton Woods. 730 delegati di 44 nazioni si riunirono nel New Hampshire per definire su spinta degli Stati Uniti d’America un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale.
Era ancora viva la memoria della dannosa grande depressione, delle politiche di controllo sul tasso di cambio, delle barriere commerciali. Si avvertì la esigenza di governare i rapporti monetari tra gli stati nazionali indipendenti, facendo prevalere i punti di contatto piuttosto che le differenze.
Fu un compromesso tra due progetti: quello di Harry White (USA), che risultò prevalente, e quello del grande economista inglese John Maynard Keynes.
Furono create istituzioni internazionali di supporto come il Fondo Monetario Internazionale, per dare elasticità al sistema, e la Banca di ricostruzione e sviluppo per dare impulso alla crescita e il GATT divenuto poi organizzazione mondiale per il commercio, successivamente trasformato in WTO. Il sistema affermò un sistema di cambi fissi tra valute agganciate al dollaro e quindi all’oro con piccoli scostamenti e riallineamenti e la centralità del dollaro, cui furono ancorati i prezzi delle materie prime e del petrolio. Era un accordo per un sistema aperto e liberista nel solco dei principi di libertà e di democrazia, favorendo la ricostruzione e determinando crescita e sviluppo.
Aveva tuttavia un limite perché non prevedeva un controllo della quantità di dollari emessi permettendo così agli USA di esportare inflazione. Infatti l’accordo va in crisi proprio a causa delle politiche USA, in particolare, a seguito dalla grande espansione degli investimenti produttivi negli anni sessanta, della guerra del Vietnam, in conseguenza dell’aumento della spesa pubblica USA.
Tutto ciò aumentò la richiesta di conversione di dollari in oro che portò alla dichiarazione improvvisa e unilaterale di Nixon del 15 agosto 1971 che sospese la convertibilità. Nixon impose anche soprattasse sulle importazioni in contrasto con le regole del GATT. Il colpo fu immediato se consideriamo che l’Italia nel 1970 collocava negli USA il 10,3 per cento del totale delle proprie esportazioni e per il 3,3 per cento del totale delle importazioni USA. Ne conseguì la svalutazione del dollaro e il passaggio alla fluttuazione dei cambi. Ne derivarono conseguenze successive come gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 con forti squilibri sulle bilance dei pagamenti che portarono alla stagflazione, un intreccio perverso tra inflazione e recessione determinata dalla crisi del sistema monetario internazionale.
Per memoria nel 1980, il 63 per cento degli scambi mondiali erano riferiti per il 44 per cento dell’Europa, per il 12 per cento degli Stati Uniti e per il 7 per cento al Giappone. Queste tre aree “facevano l’economia del mondo” perché concorrevano con l’84 per cento del loro PIL dell’area OCSE e per il 60 per cento alla formazione del PIL mondiale. Il sistema di Bretton Woods fondato sul “gold Exchange standard” aveva perduto la sua condizione di equilibrio affidata ad una ragionevole proporzione tra oro e debiti a breve nei centri emittenti moneta di riserva, negli Stati uniti in pratica, e fra oro e crediti a breve nei centri che accettano moneta di riserva. All’antico International Monetary System – affermò Robert Triffin – è subentrato un International Monetary Non System. Ai mali del sistema mancò una risposta adeguata. Mancò , in sede di FMI, nonostante le raccomandazioni alla vigilia della Conferenza di Copenaghen per introdurre correttivi con l’ampliamento delle bande di oscillazione, più piccoli e pronti aggiustamenti dei tassi di cambio, deviazioni concertate delle parità.
Gli anni settanta hanno rotto gli equilibri mondiali sul sistema dei pagamenti internazionali e con gravi squilibri valutari. Con la quadruplicazione del prezzo del petrolio si spaccò l’economia mondiale, mutando l’equilibrio dei fattori lavoro, capitale ed energia. Da quel periodo iniziavano a manifestarsi squilibri strutturali sulla competitività. La dimensione dei problemi finanziari è riflesso degli squilibri reali e delle pressioni per una diversa distribuzione dei redditi a livello internazionale. Un nuovo assetto monetario internazionale è irrealizzabile se non si affrontano i termini di un nuovo ordine economico internazionale.
La globalizzazione spinta dalla finanziarizzazione ha portato alla affermazione di nuovi Stati e di nuove economie, sulla spinta delle multinazionali impegnate nei processi di delocalizzazione per guadagnare vantaggi di competitività determinata da minore costo del lavoro e pratiche di dumping sociale. Le integrazioni economiche e produttive hanno al tempo stesso rafforzato gli scambi internazionali, l’interdipendenza globale, i legami tra gli stati ed evitato i conflitti. Venti anni di globalizzazione forzata hanno spostato il baricentro dello sviluppo, delle produzioni e degli scambi internazionali con un ruolo sempre più marcato dell’Asia. Nel 2012 la Cina e i paesi asiatici hanno raggiunto il 31,5 per cento del totale delle esportazioni appena inferiore a quello dell’Europa (35,6) . Alla area OCSE si sono progressivamente aggiunte nuove aree economiche come i paesi del Brics ( Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale e il 20 per cento del PIL del globo e i Paesi del Mint (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia ) .
Queste economie emergenti, potrebbero raggiungere nel 2025 il 50 per cento del pil mondiale. Scriveva Charles P. Kindleberger nel 1984 :” il sistema europeo e quello mondiale zoppicheranno per qualche tempo. Alla fine si determinerà una nuova gerarchia. Non è ancora chiaro se sarà l’Europa, gli Stati Uniti o qualche paese ancora ignoto a fornire al mondo il bene pubblico della stabilità monetaria ed economica. Nel frattempo è importante che le nazioni stiano attente a non mettere in pericolo la stabilità della barca.”Lo scorso 15 luglio a Fortaleza, ptoprio in coincidenza con le settimane di luglio del 1944 a Bretton Woods, i Brics hanno dato vita ad una Banca dello Sviluppo con un capitale equamente diviso tra i partners per fronteggiare le crisi finanziarie. Rappresenta una sfida globale perché crea istituzioni in contrapposizione a quelle nate da Bretton Woods, guarda al ridimensionamento degli Stati Uniti e all’accantonamento del dollaro. La decisione non si muove sul terreno della cooperazione fruttuosa tra le aree economiche interdipendenti.
Le pressioni del XX secolo hanno fatto saltare prima il gold standard poi il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods. Restano le preoccupazioni per il sistema monetario internazionale che non procede nel senso della cooperazione ma del conflitto. Sarebbe richiesto soprattutto un nuovo spirito di cooperazione che muova dal ridimensionamento della leadership finanziaria americana affinchè non prevalgano le svalutazioni competitive tra le valute che determinano effetti sulle produzioni e sulla occupazione mondiali. Non va dimenticato che l’interdipendenza gioca in positivo nella fase di sviluppo e in negativo nella fase di recessione. La finanziarizzazione del sistema economico globalizzato e modelli di sviluppo inadeguati rendono fragile l’intero sistema finanziario perché richiedono riforme e regole globali che allo stato sembrano lontane dall’essere realizzate. Il disordine monetario internazionale persisterá fintanto che la contrapposizione tra economie con diritti e senza diritti non porterá a regole condivise e soprattutto ad un accordo per un riequilibrio nel rapporto tra le valute. Non saranno i mega accordi regionali come il TTIP, quello transatlantico e TPP, quello del Pacifico, a rimuovere le cause di una crisi profonda che investe le regole della economia globalizzata.
Oggi sembrano prevalere pericolose logiche di contrapposizione piuttosto che quelle di integrazione.
Roma, 19 agosto 2014