Non è partecipazione quella di Marchionne
Alcune questioni economiche che si sono aperte nel Paese meritano qualche approfondimento: la vicenda degli esuberi Whirpool nel comparto del bianco e il “bonus” Fiat ai dipendenti.
L’annuncio di chiusura dello stabilimento produttivo di Caserta e del centro di ricerca e sviluppo in provincia di Torino per Whirpool, con complessivo l’esubero di ben 1.340 lavoratori, ha evidenziato la criticità del nostro apparato industriale rispetto spinte della globalizzazione.
Tutto ciò è avvenuto nonostante il precedente accordo siglato con il Ministero dello Sviluppo.
Se guardiamo al passato, quaranta anni fa, il 21 agosto del 1974 ben seimila lavoratori Indesit, i due terzi dell’organico, furono posti in CIG a 26 ore settimanali e a tempo indeterminato. L’aumento dei costi e il forte calo della domanda imposero una pesante riorganizzazione produttiva. La settimana lavorativa fu ridotta a 24 ore lavorative. Ogni lavoratore perdeva sedici ore di lavoro settimanali, di cui dieci venivano coperte dalla indennità integrativa, quindi con conseguenze contenute sotto l’aspetto salariale, perché v’era una perdita di 18 mila lire al mese su un salario di 160 mila lire di allora.
E’ illusorio pensare che il recente Job act, con i contratti a tutele crescenti possa salvare da decisioni che appartengono a logiche meramente capitalistiche. Per fortuna che ancora interviene l’ istituto della vecchia Cassa Integrazione a ridurre le difficoltà e i disagi economici dei lavoratori e delle loro famiglie.
V’è però una differenza tra quella situazione degli anni settanta ed ora. Si è passati dalla fase della dimensione nazionale a quella continentale e poi mondiale. V’è stata la ricerca progressiva di economie di scala con l’obiettivo di costruire sempre nuove masse critiche. Le politiche offertiste e l’eccesso di capacità produttiva si sono scontrate però con un ciclo deflattivo, con un calo della domanda anche per la saturazione dei mercati del vecchio continente.
Eppure i problemi non sono scomparsi di fronte all’esplodere e all’aggravarsi della crisi economica.
E’ semmai aumentata la difficoltà di trovare soluzioni idonee perché, soprattutto per le grandi imprese, il capitalismo familiare che stava sul territorio e dentro la comunità si è reso invisibile, trasformato e mimetizzato nei fondi di investimento, quotato in listini di borse lontane. Né va dimenticato come grandi aziende industriali storiche pubbliche come Ansaldo e Breda Ferroviaria e private come Pirelli ed altre sono state rilevate da gruppi esteri con garanzie per gli azionisti, a volte con il mantenimento della direzione, ma senza impegni e garanzie per il Paese e i lavoratori. Lo stesso avverrà per quote rilevanti di banche popolari e nel settore del credito. Tuttavia attrarre nuovi investimenti diretti è cosa ben diversa dal favorire shopping industriale. Al fenomeno non sono estranee medie imprese, né storici marchi italiani. Ve né un elenco infinito e preoccupante nell’agroalimentare, valutato in 10 miliardi di euro di valore. V’è il rischio che dopo la acquisizione di pezzi di apparato industriale si realizzi la fase successiva della ulteriore delocalizzazione produttiva. Il disastro sarebbe allora completo. Manca allora una risposta di politica industriale che non può essere quella meramente finanziaria portata avanti dalla Cassa Depositi e Prestiti. Manca un progetto paese a medio termine capace di indirizzare politiche di investimenti pubblici verso i settori che sono stati capaci più dinamici, di resistere alla crisi, di essere”vivi”, soprattutto nei comparti che incorporano più alto valore aggiunto o a strategie meramente difensive dei tavoli di crisi. Sarebbe illusorio fare affidamento al solo piano Junker per eccesso previsivo del moltiplicatore, per la esiguitá delle risorse messe in camoi e per la limitatezza dei progetti.
Di converso l’amministratore della FCA, azienda ormai fuori da Confindustria, annuncia un bonus legato al piano industriale basato su contratti aziendali di produttività, ancorati a produttività aziendale e dell’area mediterranea. Su questa decisione ha manifestato contrarietà il sindacato metalmeccanico guidato da Landini che vede in questa operazione una azione di marginalizzazione del sindacato. Mentre da parte di Confindustria v’è stato silenzio.
Da parte nostra, anche insieme a Riccardo Pedrizzi, Giampiero Cantoni, Giorgio Costa un decennio fa, sostenemmo con forza l’affermazione dei principi della share economy. Riuscimmo ad introdurre nella legge delega sulla riforma del sistema fiscale fin dal 2003. Con rammarico ed amarezza va detto che quei principi di quella delega affidata a Tremonti fu abbandonata e non è stata esercitata nei termini previsti.
Purtroppo da parte di Marchionne la share economy viene vista né come partecipazione dei lavoratori alla vita e ai destini della impresa, né come esaltazione della economia sociale di mercato, ma come rivincita del capitale rispetto al lavoro, non come riconoscimento di una conquista sociale, ma come “concessione” unilaterale, non come superamento del conflitto, ma esasperazione dello stesso attraverso una progressiva compressione dei diritti e relativa monetizzazione.
Ecco perché sarebbe stata opportuna una disciplina generale che attraverso la via fiscale potesse determinare una spinta a tutto il settore industriale come risposta alla sfida della concorrenza mondiale che richiede sforzi coraggiosi e capaci di ricollegare il lavoro dipendente ai problemi strategici delle unità produttive.
Una visione che metta l’Uomo al centro del modello di sviluppo. Una visione che metta i corpi intermedi, anche il sindacato, al centro di una fase di corresponsabilizzazione di fronte alle sfide dei tempi nuovi.
Sullo sfondo infine registriamo una grande opacità sul trattato di libero scambio tra Europa e Stati Uniti dopo quello gemello transpacifico. V’è infatti il rischio che la lezione della crisi che ancora viviamo non sia stata appresa. È noto il ruolo decisivo svolto dalle multinazionali durante le negoziazioni per rimuovere ostacoli a libero commercio che si traducono nel ridurre regole a tutela dei consumatori, lavoratori, ambiente e salute come ha ricordato Joseph Stiglitz sul NYT. Prevale ancora una volta la logica del profitto ad ogni costo. Ecco perché occorre perseguire un nuovo modello di sviluppo che non è quello degli Stati Uniti come ha affermato il Premier Renzi durante il suo viaggio negli Stati Uniti.
Non può essere un modello con così vistose disuguaglianze come quello in cui vi è la concentrazione della metà della ricchezza nell’1 per cento della famiglie, e del dominio delle grandi banche d’affari, ma in un modello che recuperi la centralità della persona per lo sviluppo della società.
L’Unione Europea prima di procedere sul Trattato cerchi di risolvere prioritariamente i suoi problemi istituzionali e di governance evitando che le contraddizioni attuali si traducano in ulteriori debolezze economiche e sociali che mettano a rischio il modello sociale europeo.
Maurizio Eufemi
Ps. Dopo la chiusura di questo articolo sono accaduti alcuni fatti nuovi:
Il 2 luglio è maturata una intesa governo – sindacati sulla vicenda whirpool che sposta al 2018 gli esuberi e di ciò siamo soddisfatti.
Sull’accordo Ttip il parlamento europeo l’8 luglio, a Strasburgo sinè fatto carico delle perplessitá approvando il testo Lange contenente alcuni punti fermi da non superare sulla protezione dei consumatori, della salute e della sicurezza, nonché sulla protezione geografica e della politica agricola, anche se permangono capoversi controversi in materia di energia, telecomunicazioni e appalti.
Nei giorni scorsi anche l’ex presidente della Commissione Europea Romano Prodi ha manifestato forti perplessitá sul trattato.