J.E.STIGLITZ, Le nuove regole dell’economia.
Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere,
Milano, Il Saggiatore, 2016
recensione di Lorenzo Paliotta tratta dalla rivista bancaria MINERVA BANCARIA N. 2 – 3 / 2017 205
La recessione iniziata nel 2008 ha aggravato le disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di opportunità in tutto l’Occidente. Stiglitz, che ha ricevuto nel 2001 il Nobel per l’economia insieme a Spence e Akerloff, è stato allievo di Franco Modigliani, insegna alla Columbia University ed è stato capo economista della Banca mondiale e consulente del Presidente Clinton. Sulle politiche adottate dalla Banca mondiale e dal FMI egli, da buon neo-keynesiano, assunse più volte posizioni fortemente critiche. In questo saggio, avvalorato da molte evidenze empiriche citate nelle numerose note e nell’appendice, egli giunge alla conclusione che la disuguaglianza è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi. La disuguaglianza, secondo l’A., è in primo luogo frutto delle politiche neoliberiste affermatesi fin dagli anni settanta del secolo scorso. La loro applicazione ha trasformato gli Usa da tipica terra delle opportunità in un paese oligarchico dalla scarsa mobilità sociale, in cui sanità, istruzione e casa di proprietà sono inaccessibili a una larga fetta del popolo, mentre, tra il 2009 e il 2012, il 99% di tutti gli aumenti di reddito è finito nelle tasche dell’1% più ricco della popolazione. Questo libro fornisce un quadro esauriente delle distorsioni ideologiche, delle deregulations e delle norme tributarie che hanno favorito il settore finanziario e arricchito i più ricchi, penalizzando la classe media e discriminando i lavoratori, in particolare le donne, gli afroamericani e gli immigrati. Il messaggio di Stiglitz parte dagli Usa ma si estende a tutto il mondo occidentale, ribaltando il diffuso pregiudizio secondo cui per perseguire l’uguaglianza occorre sacrificare la crescita economica. Per avere una prosperità condivisa non basta ridistribuire il reddito attraverso imposte e trasferimenti, ma è necessario anche favorire gli investimenti, aumentare i salari minimi e l’influenza politica della maggioranza dei cittadini. Le nuove regole dell’economia, frutto anche di un lavoro di squadra all’interno del Roosevelt Institute, abbracciano un ampio ventaglio di riforme (dal fisco allo stato sociale, dall’istruzione alla lotta ai monopoli, dal diritto sindacale agli incentivi per il lavoro femminile, dalle infrastrutture al sistema penale) ed entrano nei dettagli mettendo in evidenza che, quando c’è la volontà politica, i cambiamenti sono fattibili. Il messaggio che il libro intende veicolare è che lo squilibrio dell’economia Usa non può essere attribuito alle leggi naturali dell’economia ovvero all’inevitabile evoluzione del capitalismo, ma piuttosto alle regole dettate da una determinata scuola economica (la supply-side economics). Mentre nei decenni precedenti, gli economisti keynesiani avevano messo in evidenza le carenze della domanda quale fattore che limita l’espansione economica, il pensiero supply-side ha dato un netto strappo al passato perché ha portato non solo alla deregolamentazione e alla riduzione delle aliquote fiscali sui redditi più elevati, ma anche a tagli dei programmi di welfare e degli investimenti pubblici. E però i vantaggi non sono “sgocciolati” (trickle-down) sul resto della popolazione, come indicato dalla teoria. Si è creata una c.d. economia di mercato satura di distorsioni che arricchiscono i più ricchi e soffocano la crescita nel lungo termine. Insomma i fatti hanno smentito le previsioni di questa scuola che perciò oggi gode di scarso credito tra gli economisti, pur restando popolare negli ambienti politici e ideologici conservatori. All’inizio del XX secolo, mentre era in atto una transizione dall’occupazione agricola a quella nell’industria, il movimento progressista si pose l’obiettivo di proteggere e coinvolgere sul piano politico tutti gli americani, inclusi i lavoratori. Il primo Roosevelt decise di limitare monopoli e trust, e, qualche tempo dopo, il secondo Roosevelt si fece promotore del New Deal per combattere le concentrazioni di potere economico e politico. Di fronte alla Grande Depressione, attuò anche una serie di riforme politiche radicali: garanzia dei depositi bancari, separazione tra banche di deposito e banche di investimento, creazione della Sec per proteggere gli investitori comuni e contrastare la manipolazione dei mercati e l’insider trading, diritto dei lavoratori di negoziare contratti collettivi. In quell’età dell’oro del capitalismo, l’economia americana crebbe più velocemente che in qualsiasi altra epoca ed i redditi bassi aumentarono più rapidamente di quelli alti. Insomma, tra il 1892 e il 1938 la politica americana dimostrò che era in grado di far convergere movimenti sociali e potenti forze politiche per metterli al servizio di tutti cittadini, così da apportare profondi cambiamenti strutturali alle regole di governo dell’economia. Ridurre la disuguaglianza, ribadisce l’A., non è solo una questione di redistribuzione in quanto le politiche economiche influiscono sulla distribuzione del reddito sia al lordo che al netto delle imposte e dei trasferimenti. Nelle analisi tradizionali, basate su modelli di mercati perfetti, spesso si danno per scontate le regole del gioco. I mercati perfettamente concorrenziali, però, sono davvero pochi e pertanto i risultati economici dipendono in parte dal potere di mercato e dalle regole che lo governano. Ad esempio, è risaputo che nella concorrenza imperfetta le imprese hanno il potere di stabilire i prezzi; così come i gruppi dotati di forte potere politico possono ottenere che le regole di mercato vengano scritte e applicate a loro favore. Le esperienze economiche degli ultimi 40 anni hanno smentito molte delle concezioni tradizionali in materia di teoria economica e di andamento della crescita. Oggi si sa che nelle economie sviluppate l’alta marea non solleva necessariamente tutte le barche. In passato si pensava che si potesse avere maggiore uguaglianza solo al costo di un peggioramento della performance economica. Okun descrisse il “grande trade-off” tra uguaglianza ed efficienza, ma nuovi studi hanno dimostrato che si può arrivare con successo alla prima senza penalizzare la seconda, come dire che queste due grandezze del dilemma sono complementari, non incompatibili. Dalla fine degli anni settanta del secolo scorso si è avuto un rallentamento della crescita economica con alcune gravi recessioni. Evidentemente, la trickle-down economics – che suggerisce di incrementare i redditi più alti nella speranza che questo abbia ricadute favorevoli su tutti gli altri – non ha funzionato. Invece, secondo il nuovo paradigma della trickle-up economics si avrebbero maggiori probabilità di successo ricostruendo l’economia a partire dalla classe media. Secondo i modelli tradizionali le differenze tra i redditi individuali sarebbero ascrivibili a differenze di produttività, abilità e impegno, e le variazioni della distribuzione del reddito sarebbero riconducibili a cambiamenti della tecnologia e degli investimenti in capitale umano e fisico. Ma, ad esempio, il cambiamento tecnologico skill-biased non spiega perché molti lavoratori altamente qualificati hanno dovuto accettare mansioni di livello inferiore alle loro competenze né il profondo divario che si è creato tra la produttività del lavoro e i salari medi: tra il 1973 e il 2013 la produttività del lavoro è aumentata del 161 per cento, mentre i compensi versati ai lavoratori sono cresciuti solamente del 19 per cento al netto dell’inflazione. Il modo in cui i benefici complessivi della crescita si distribuiscono tra la popolazione sono fenomeni complessi riconducibili a molteplici cause. Fra queste figurano sicuramente la tecnologia, la globalizzazione e i cambiamenti demografici, ma misurare con esattezza il contributo di tutti i fattori non è semplice. E però, tra le economie avanzate gli Usa presentano la maggiore disuguaglianza; di ciò serve dunque una spiegazione alternativa. L’approccio istituzionalista parte dalla semplice constatazione che le regole e il potere sono importanti. Numerosi ricercatori, tra i quali molti premi Nobel, hanno lavorato sulle imperfezioni e sulle asimmetrie informative, sulla teoria della contrattazione e sulle imperfezioni della concorrenza, sull’economia comportamentale e sull’analisi istituzionale dimostrando in sostanza che sono necessarie istituzioni e regole per costringere i mercati a comportarsi in modo concorrenziale, a beneficio di tutti.In sintesi, sia l’approccio tradizionale sia quello istituzionalista spiegano una parte di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, ma il secondo approccio, incentrato su fattori strutturali, appare sempre più convincente. Gli economisti stanno sviluppando una nuova serie di teorie per spiegare i profondi squilibri che si registrano nell’economia odierna. Il francese Piketty ne Il capitale nel XXI secolo (cfr. nostra recensione su questa Rivista, n.5-6/2014) sostiene che il rendimento del capitale sia maggiore del tasso di crescita dell’economia nel suo complesso e che, di conseguenza, la ricchezza cresca più velocemente del reddito. Ma secondo Stiglitz questa non è una spiegazione corretta o quantomeno completa. Gran parte della crescita della ricchezza è ascrivibile a un aumento del valore delle immobilizzazioni che non rispecchia un maggior valore produttivo. Se le rendite, fondiarie e no, aumentano aumenta anche la ricchezza. Nella sua analisi l’A. opera una distinzione tra capitale e ricchezza per dire che solo un aumento del capitale favorisce la crescita. Per correggere gli squilibri egli propone di attaccare queste rendite alla fonte. Comportamenti di rent-seeking sono quelli, ad esempio, delle imprese monopolistiche che applicano un sovrapprezzo sui loro prodotti e quelli delle società farmaceutiche che ottengono l’approvazioni di leggi grazie alle quali possono praticare al settore pubblico prezzi molto elevati e offrire meno beni e servizi. L’economia statunitense era più equilibrata nei decenni precedenti al 1980 e in particolare nella fase centrale del XX secolo. Negli anni ottanta, obbedendo alle teorie della supply-side sviluppate nel decennio precedente sotto la spinta dell’ideologia conservatrice e di alcuni gruppi di interesse, le autorità statunitense avviarono la deregolamentazione dell’economia: riduzione delle aliquote fiscali più elevate e delle imposte sui redditi da capitale. Tutto questo avrebbe dovuto stimolare il lavoro e i risparmio. Gli esiti sono stati deludenti: le entrate fiscali sono crollate e si è registrata meno crescita e più instabilità.. Nei decenni a cavallo del 2000 sono avvenuti altri cambiamenti radicali. La deregulation del settore finanziario ha spinto le imprese a privilegiare i profitti di breve periodo (short-termism o breveperiodismo). Gran parte della crescita osservata negli anni novanta si è dimostrata instabile, costruita su bolle speculative, prima nel comparto tecnologico e poi in quello immobiliare. Nel frattempo l’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno portato a una maggiore integrazione dell’economia mondiale. La corsa a risparmiare sui costi del lavoro, senza le dovute tutele, ha comportato negli Usa una perdita significativa di posti di lavoro e forti pressioni al ribasso sulle retribuzioni. Queste forze unendosi all’accresciuta finanziarizzazione dell’economia hanno contribuito al declino dell’industria manifatturiera verticalmente integrata. Oggi molti sperano nelle innovazioni rivoluzionarie: le tecnologie diffuse offerte da Internet, le promesse delle nanotecnologie e le vaste potenzialità della biotecnologia e della medicina personalizzata. L’interrogativo più importante è se queste tecnologie possano contribuire a generare più crescita, più opportunità e più benessere, con benefici distribuiti tra un maggior numero di persone. Le tecnologie di rete hanno già prodotto molti benefici, ma non sono ancora diventate un motore di prosperità ampiamente condivisa. L’attuale assetto dell’economia Usa è contraddistinto da rendite elevate, basse retribuzioni e scarsa occupazione. Tuttavia, le regole e le dinamiche di potere insite nel sistema economico odierno non sono sempre visibili. L’A. raffigura la lenta crescita dei redditi e l’aumento delle disparità economiche come un iceberg la cui punta visibile è la nostra percezione quotidiana della disuguaglianza (retribuzioni modeste, indennità insufficienti e un futuro incerto). Questa dimensione visibile costituisce l’aspetto più importante per gli elettori e i politici. Appena sotto il livello dell’acqua si trovano i fattori che generano questa percezione; sono elementi difficili da vedere, ma di importanza vitale (leggi e politiche che definiscono la struttura dell’economia e creano disuguaglianza). Si tratta di tante forze strutturali che determinano gli squilibri di potere economico e politico e creano vincitori e vinti. Alla base dell’iceberg vi sono le grandi forze globali che condizionano l’evoluzione di tutte le economie moderne: fattori come le tecnologia, la globalizzazione e le tendenze demografiche. Si tratta di forze con cui bisogna fare i conti, ma che possono essere governate e orientate alla produzione di risultati migliori. Spesso le autorità, gli osservatori il pubblico si concentrano solo sugli interventi che interessano la punta visibile dell’iceberg. Nel nostro sistema politico le grandi proposte per ridistribuire il reddito ai più deboli e contenere l’influenza dei più potenti si riducono a provvedimenti modesti, come i crediti di imposta o le norme sulla trasparenza delle retribuzioni. Inoltre, a volte le autorità sminuiscono il valore di qualsiasi intervento, sostenendo che le forze alla base dell’iceberg sono forze esogene troppo imponenti e impossibili da gestire. Secondo questa scuola di pensiero, se avessimo controllato gli eccessi nel campo del credito immobiliare, il settore finanziario avrebbe comunque trovato altre strade per creare una bolla; e se cercassimo di controllare le retribuzioni dei dirigenti, le aziende troverebbero sistemi più sofisticati per remunerare comunque gli amministratori delegati. Secondo questa visione disfattista, le forze alla base della nostra economia non possono essere gestite. L’A. non è d’accordo. Se non si agisce sulle leggi, sulle regole e sulle forze globali, si può fare ben poco. La premessa di questo studio è che si possa rimodellare la parte centrale dell’iceberg, cioè le strutture intermedie che determinano il modo in cui si manifestano le forze globali. In questo libro si pone l’accento sulle regole dell’economia e sul potere di stabilirle, ma questo non significa che lo Stato possa chiamarsi fuori dai giochi. I mercati non operano sotto vuoto; è lo Stato che ne determina la struttura e ne regola il funzionamento. E il modo in cui le regole vengono formulate, aggiornate e applicate, si ripercuote su tutti. L’esperienza degli ultimi decenni suggerisce che è possibile riscrivere le regole della finanza, della governance aziendale e del commercio internazionale in modo da promuovere la crescita e la prosperità condivisa. Il tutto nella convinzione che il paese possa così uscire fuori dal pantano e che le nuove regole possano funzionare meglio per tutti e non solo per i più ricchi. La leadership politica avrà il coraggio di rispondere a questa chiamata? (Lorenzo Paliotta) |