Recensione di Lorenzo Pallotta al libro “Disuguaglianze” di Franzini-Pianta

 Recensione di Lorenzo Pallotta al libro “Disuguaglianze” di Franzini-Pianta

Disuguaglianze: quante sono, come combatterle

M. Franzini – M. Pianta
Roma-Bari, Laterza, 2016, pp.200, 14 euro.

Recensione di Lorenzo Pallotta

Questo libro sintetizza anni di ricerca, di presentazioni a seminari e discussioni pubbliche sulla disuguaglianza. Le principali idee qui esposte sono rintracciabili in alcuni saggi precedenti di Franzini, Pianta e Marcon (Cfr. su questa Rivista, n.5-6/2013, la recensione di Disuguaglianze inaccettabili di Franzini).Gli è che, le disuguaglianze di reddito e di ricchezza sono aumentate in tutti i paesi avanzati e quelle di reddito sono tornate addirittura ai livelli di un secolo fa. Esse rimangono estremamente alte anche a livello mondiale, nonostante il più alto reddito medio di paesi emergenti come Cina ed India.
La disuguaglianza è dunque oggetto di una crescente attenzione tant’è che alcuni libri che l’hanno evidenziata sono perfino diventati best-seller (Cfr. su questa Rivista, n.5-6/2014 e n.2- 3/2017, le recensioni dei testi di Piketty e Stiglitz). E però, nonostante i molti studi apparsi finora, manca ancora una spiegazione convincente e completa dei meccanismi che sono alla radice di questo fenomeno che, forse anche per questo, non viene considerato un obiettivo chiave per l’azione dei governi. E difatti, nonostante occasionali manifestazioni contro l’1% dei più ricchi, manca una appropriata strategia politica. Gli AA. propongono un’interpretazione che conferisce un notevole peso a quattro motori che alimentano la disuguaglianza nel capitalismo di oggi: il potere del capitale sul lavoro, l’ascesa di un “capitalismo oligarchico”, l’individualizzazione delle condizioni economiche e l’arretramento della politica.
L’azione congiunta di questi motori sta cambiando le modalità di funzionamento non soltanto del sistema economico ma anche di quello politico, tant’è che l’economia sta diventando meno dinamica, la società più ingiusta e la politica meno democratica.
Un punto di svolta nella dinamica delle disparità viene considerato l’avvento del neoliberismo con le vittorie della Thatcher nel 1979 in Gran Bretagna e di Reagan l’anno dopo negli Usa. Il nuovo credo economico-politico ha smantellato il consenso keynesiano del dopoguerra mettendo al centro del processo economico il mercato che, una volta liberalizzato e deregolamentato, sarebbe stato in grado non solo di allocare efficientemente le risorse ma anche di distribuire equamente i compensi.
Alla crisi degli anni Settanta del secolo scorso, le istituzioni hanno risposto con la deregolamentazione del settore bancario, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e con nuovi strumenti finanziari (future, derivati, hedge funds ed altri) che hanno alimentato la speculazione di breve periodo.
Dieci anni dopo, nei paesi avanzati la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie informatiche hanno trasformato i sistemi di produzione e i flussi d’investimento, riducendo la produzione interna, distruggendo posti di lavoro, abbassando i salari e minando il potere dei sindacati. In questi paesi, il nuovo potere del capitale sul lavoro ha portato dagli anni Ottanta ad oggi a uno spostamento di almeno dieci punti percentuali di Pil dalla quota dei salari a quella del capitale. E questo spiega il valore crescente delle attività finanziarie e immobiliari, l’aumento inconsueto dei redditi dei super ricchi e dei compensi dei manager. Nelle 350 maggiori imprese Usa, fatto pari a uno il salario medio dei dipendenti, i compensi dei manager sono passati da 30 nel 1978 a 383 nel 2000 e a 296 nel 2013.
E però, le distanze sono aumentate non solo tra i più ricchi e tutti gli altri ma anche all’interno della classe lavoratrice. Il processo di individualizzazione ha infatti messo i lavoratori in concorrenza l’uno con l’altro. Questi svolgono in genere lavori più precari, con un’ampia varietà di forme contrattuali (a tempo determinato, part-time, su commessa, con partita Iva) mentre i giovani vedono futuri professionali sempre più incerti e diversificati. Anche le pensioni dipendono da sistemi pensionistici differenziati e legati, spesso,
all’andamento dei mercati finanziari.
Fino agli anni Settanta nei paesi avanzati le disparità che emergevano dai meccanismi di mercato erano contenute dallo Stato attraverso una tassazione fortemente progressiva, da imposte specifiche sui beni di lusso, da elevate imposte di successione, dal
sostegno al reddito dei meno fortunati e da un’ampia fornitura di servizi pubblici fuori dal mercato (istruzione, sanità, sicurezza sociale, pensioni, tutela dell’ambiente, etc.).Dagli anni Ottanta in poi quasi tutte queste politiche sono state cancellate o indebolite, per cui questo arretramento della politica ha
avuto un notevole impatto negativo sulle disparità.
A partire dagli anni Novanta, a seguito delle disparità verificatesi nel decennio precedente, gli studi si sono spostati dalla distribuzione funzionale del reddito tra le classi sociali alle disuguaglianze tra gli individui. In effetti, le divisioni di classe sono diventate meno chiare e condizioni di genere, origine etnica, istruzione e qualificazione professionale sono risultati i fattori più idonei a spiegare la distribuzione personale dei redditi. Parallelamente, la rapida accumulazione dei patrimoni finanziari e immobiliari degli individui più ricchi ha prodotto una nuova attenzione sulle disuguaglianze.
Piketty ha sostenuto che le radici della crescente disparità sono i rendimenti del capitale superiori al tasso di crescita dell’economia. Altre spiegazioni si sono concentrate sulle disparità tra i salari nel contesto della globalizzazione e del cambiamento tecnologico.
Alcuni sostengono che i salari crescenti degli occupati più qualificati riflettono la maggiore produttività dei lavoratori in grado di utilizzare le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e che le disparità retributive sono il risultato di un cambiamento
tecnologico skill biased, che favorisce le alte qualifiche. Altri però osservano che nei paesi avanzati non si registra un generale innalzamento delle qualifiche degli occupati, ma si sta invece verificando una polarizzazione che crea più posti di lavoro, da un lato,
per manager e professionisti, e, dall’altro, per i lavori meno qualificati. Il cambiamento tecnologico ha senza dubbio un impatto sulla disuguaglianza, ma tale impatto è più complesso rispetto a quello ipotizzato dagli studi skill bias.
L’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite classifica i paesi in base a una media della loro aspettativa di vita, del livello di istruzione e del Pil pro-capite. Therborn ha sostenuto che ci sono tre tipi interconnessi di disuguaglianza: quella vitale (basata sulle
aspettative di vita e sulle condizioni di salute), quella esistenziale (basata sulle differenze tra classi, status, genere, etnia) e quella delle risorse (della quale si occupano di più gli economisti).
Wilkinson e Piketty hanno mostrato che le disparità più elevate nei paesi avanzati sono associate a una lunga serie di problemi sociali (suicidio, consumo di stupefacenti, obesità, etc.) che contribuiscono ad abbreviare l’aspettativa di vita dei poveri.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle prospettive liberali, c’è ampia evidenza che le economie avanzate negli ultimi decenni sono rimaste ben lontane dal concedere pari opportunità a tutti e, d’altro canto, vi sono poche prove che un’alta disuguaglianza sia associata a una maggiore crescita che la potrebbe giustificare. In sintesi, gli AA. sottolineano che la nuova natura della disuguaglianza contemporanea sta cambiando il quadro della discussione almeno sotto tre profili.
In primo luogo, i redditi e la ricchezza delle persone più ricche oggi sono sempre meno il risultato di una crescita di attività economiche di successo e sempre più il risultato della speculazione finanziaria, di rendite monopolistiche, protezioni dalla concorrenza e di privilegi di varia natura, a iniziare da quelli familiari i quali, mediante lasciti ereditari, indeboliscono il legame tra
meriti e compensi ottenuti. Senza sottovalutare che questi “aristocratici del denaro” possono influenzare i processi politici, condizionando i governi e minando così i sistemi democratici. In secondo luogo, i meccanismi che producono disparità nei paesi avanzati sono diventati più complessi perchési sono estesi anche all’istruzione, alla posizione nel mondo del lavoro, all’origine
familiare, etc. In terzo luogo, alla base delle dinamiche delle disparità ci sono istituzioni e processi politici che definiscono le azioni dei governi.Si pensa di solito che tali contesti siano “neutrali” e indipendenti dalla dinamica delle disparità, ma in realtà essi possono esserne
fortemente influenzati. In definitiva, la disuguaglianza è importante anche perché influenza il quadro istituzionale e i processi politici, causando un fallimento della democrazia e una disparità di diritti politici.
Questi tre profili delle disparità di oggi forniscono prove ulteriori sulla loro inaccettabilità e mostrano la necessità di affrontarle con azioni politiche adeguate. A questo proposito è da evidenziare il recente cambiamento di indirizzo politico delle istituzioni internazionali, come l’Ocse e il Fmi, che avevano a lungo giustificato le politiche che alimentavano le disuguaglianze. L’Espresso del 16 luglio 2017 riporta un articolo di Turano (E sull’Ocse sventola l’uguaglianza) nel quale il segretario dell’organizzazione (Gurrìa), dopo aver ribadito che “lo squilibrio della distribuzione della ricchezza, con l’1% dei più abbienti che possiede il 18% della ricchezza mondiale, mentre al 60% dei più poveri resta appena il 13% del totale, è un allarme specificamente lanciato dall’Ocse nel corso degli ultimi anni”, ritiene che l’Ocse sia fondamentale “per costruire un migliore futuro economico per il pianeta, perché ha compreso presto che doveva impostare la sua azione verso la riduzione delle disparità”.
 Nell’ultimo capitolo del testo, l’analisi si sposta sul quarto fattore della disuguaglianza (l’arretramento della politica) il quale ha reso più incisivi gli effetti degli altri tre in quanto, come già accennato, la ridotta capacità di spesa dei governi nazionali, la riduzione della
progressività della tassazione, la capacità dei redditi più alti di eludere le imposte e la privatizzazione dei servizi pubblici hanno indebolito gli effetti redistributivi delle politiche pubbliche.
Le misure suggerite dagli AA. sono volte sia a prevenire la formazione della disuguaglianza nei mercati sia a redistribuire ex-post il reddito e la ricchezza.
Esse sono raggruppate in base alla loro rilevanza nel far fronte ai quattro motori indicati. Per riequilibrare i rapporti capitale/lavoro si propone di regolare e ridimensionare la finanza, limitare le posizioni di rendita, distribuire in modo equo i benefici della tecnologia e
gli aumenti di produttività, introdurre un salario minimo efficace e riconoscere un ruolo maggiore ai contratti di lavoro nazionali. Per contenere il capitalismo oligarchico, si suggerisce di controllare
i super redditi e di aumentare le imposte di successione. Per contrastare l’individualizzazione delle condizioni economiche, bisognerebbe ridurre la frammentazione dei contratti di lavoro e rafforzare un’istruzione pubblica egualitaria. Infine, per tornare a efficaci
politiche di redistribuzione, occorrerebbe tassare in modo appropriato la ricchezza a livello nazionale e internazionale, accrescere la progressività delle imposte sul reddito delle persone fisiche e introdurre un reddito minimo.
Da tempo si discute se le politiche debbano assicurare l’occupazione o garantire il reddito. Entrambe le proposte hanno i loro meriti e una politica ben congegnata potrebbe combinare la protezione dell’occupazione con il reddito garantito e con il salario minimo, all’interno di una strategia complessiva diretta a contrastare il fenomeno dei working poors e a ridurre la povertà e le disuguaglianze.
 In definitiva, gli AA. propongono di fermare l’arretramento della politica di fronte alle disparità e suggeriscono nuove politiche per ridurre le disuguaglianze e, al tempo stesso, portare le economie avanzate fuori dalla stagnazione riveniente dalla lunga crisi iniziata nel 2008.
 (Lorenzo Paliotta)

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