Il divorzio Tesoro -Banca d’Italia, la tassa da inflazione e il debito pubblico

Il divorzio Tesoro -Banca d’Italia, la tassa da inflazione e il debito pubblico

Articolo tratto dal giornale “Il domani d’Italia” del 13 aprile 2020

Il dibattito aperto sulle conseguenze del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia impone qualche considerazione, soprattutto se la valutazione complessiva porta  a sostenere che “ il divorzio fu un colpo di mano in spregio delle istituzioni democratiche è facile rispondere che nessun parlamento aveva mai autorizzato quell’enorme scippo di risorse ai danni dei risparmiatori che lo Stato attuò negli anni settanta con la tassa da inflazione”.
Perche il Parlamento aveva autorizzato la tassa da inflazione con la grande fiammata inflazionionistica  tra l’estate 1946 e l’autunno 1947 quando i prezzi raddoppiarono portando a circa il 50 per cento il coefficiente di aumento rispetto a prima della guerra?  In una situazione come quella del primo dopoguerra in cui le banche detenevano ingenti riserve liquide, ma con le strozzature della carenza di materie prime e fonti di energia e trasporti disastrati.
Quell’inflazione provocò un drastico abbattimento del valore reale del debito pubblico e dell’indebitamento delle imprese.
Quella azione di stabilizzazione portata avanti dalla Banca di Italia e da Donato Menichella portò frutti innegabili negli anni successive. Uomini come Menichella e Carli avevano idee e inventarono strumenti. Menichella, con  la missione con De Gasperi  negli Stati Uniti, insieme con Carli e Campilli, nascosta come discorso a Cleveland,  determinò  prestiti per 231 miliardi. Per Menichella, parlando all’ABI,   i prestiti dovevano essere a 25 anni, con i primi anni solo rimborso di interessi, senza rimborso di capitale. (Questo solo come termine di paragone rispetto alle misure indicate nel decreto liquidità) .
Carli inventò il Mediocredito centrale e i mediocrediti regionali; c’erano le banche pubbliche i certificati di deposito con la raccolta delle Bin allo 0,50 che servivano a Mediobanca per finanziare il sistema industriale.
Questo per memoria. Torniamo agli anni settanta. Come si puo’ dimenticare che l’onda della spesa pubblica si ebbe per il consenso politico, sindacale, confindustriale a cui si è aggiunto spesso l’effetto di sentenze della magistratura, corte costituzionale compresa, con impatti devastanti sul bilancio! Per non parlare del sistema delle indicizzazioni per i lavoratori e per i pensionati  dopo  l’accordo Lama –  Agnelli del 1975. 
Le conseguenze del cosiddetto “divorzio” Tesoro-Banca d’Italia  derivarono da un aumento dei tassi di interesse reali, che contribuirono alla crescita del fabbisogno del Tesoro quando ormai il finanziamento dipendeva dal mercato.
Quella decisione  sul divorzio fu presa con una lettera a Ciampi del 12 febbraio 1981, che rispose il 6 marzo. Gianni Goria nella richiesta al Parlamento della anticipazione straordinaria di 8.000 miliardi disse che:”l’intervento restituiva flessibilità al Tesoro, ma non affrontava le cause del disavanzo”. La decisione fu presa “ senza consenso politico” come riconobbe Andreatta dieci
anni più tardi. “Gli effetti del divorzio non sono quelli sperati” riconoscerà Mario Draghi nel 2007.
Errore politico degli anni ottanta fu di puntare sulla capacità della crescita di finanziare il debito.  Il bilancio pubblico ha accentuato la pace sociale. La spesa pubblica passò dal 34 per cento del Pil nel 1970 al 55 per cento del Pil nel 1985. Il livello del debito lievita dal 59 per cento del 1980 all’84 per cento nel 1985. La spesa per interessi cresce dal 5,3 a quasi il 10 per cento del Pil.
Non va poi dimenticato che nel 1985 il 40 per cento dei titoli erano posseduti da banche e istituti di credito. Il 57 per cento degli utili Fiat e il 62 per cento degli utili Olivetti per il 1984 venivano da titoli di stato ci ha ricordato Napoleone Colajanni nei suoi scritti.
Quando in gennaio 1983 il Tesoro chiese l’anticipazione straordinaria alla BI per 8.000 miliardi i tassi veleggiavano sul 18 per cento. Nel 1986- 1987 la spesa per interessi raggiunse l’ 8, 2 per cento del Pil rispetto al 4,5 del 1981. Nell’imminenza della crisi finanziaria del 1992 il tasso di sconto si cifrava al 11,5 per cento. Nino Galloni ha ricordato l’importanza degli investimenti sia pubblici che privati peraltro di poche grandi imprese. Sappiamo bene la spunta demolitrice verso le Partecipazioni Statali in nome di liberalizzazioni senza regole!
Quando in Francia nel 1925-26 si verificò la crisi nel collocamento dei titoli vi furono emissioni al 7 per cento che furono un successo. Fu creato un fondo di ammortamento con la devoluzione di importanti entrate come reddito dei monopoli del tabacco, le imposte di successione e proprietà.  Le spese di ridussero da 58 md a 34 md.
Nella esperienza italiana ricordiamo la rendita Italia 5 per cento del 1935, regio decreto n. 60/34,  Ministro delle Finanze Jung.
Nel caso italiano in una economia aperta e globalizzata con un debito collocato per il 50 per cento ad investitori internazionali o a non residenti non vi è un “trasferimento dalla mano destra alla mano sinistra” ma da un paese ad altri, come era in passato per l’Italia con un debito tutto domestico. Il Paese diviene più povero se paga l’interesse con un trasferimento di ricchezza verso l’esterno, di qui l’errore di non avere affrontato il problema del debito in una fase economica più favorevole attraverso quelle misure come contenimento della spesa corrente dal lato della  spesa militare, e delle entrate con la dismissione di beni patrimoniali.
Ora se rompi i ponti con l’Europa e sogni di fare da solo, devi fare un piano finanziario che non può poggiare su un modesto contributo di solidarietà, ma con un robusto Piano Italia di titoli di stato  a lunghissimo termine che mobiliti la ingente liquidità degli italiani a tassi remunerativi. Per raggiungere questo obiettivo  c’è bisogno di credibilità della classe dirigente e soprattutto di idee ricostruttive. Purtroppo non abbiamo né De Gasperi, nè Menichella.

Maurizio Eufemi

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