Diego Carpenedo, “ho sempre considerato la politica un dovere e una missione…””.
“ho sempre considerato la politica un dovere e una missione, sempre un gradino al di sopra della stessa professione”.
intervista di Maurizio Eufemi – tratta dal giornale online “Il domani d’Italia” – 4 giugno 2022
Vorrei ricostruire con te alcune vicende della DC del Friuli Venezia Giulia. Com’è stato l’inizio del tuo impegno politico?
Sono nato nel 1935. Appena finita la guerra ho cominciato il mio apprendistato politico con i rapporti che mi sembravano più ovvi e naturali venendo da una famiglia legata all’ambiente cattolico. Posso dire di aver attaccato parecchi manifesti in occasione del 18 aprile del 1948 a Paluzza, il paese dove sono nato, al confine con l ‘Austria. Paluzza oggi ha 2000 abitanti, a fine guerra ne aveva il doppio. Si trova lungo la strada di Monte Croce Carnico, costruita al tempo di Augusto, quando il Norico diventa una provincia dell’impero. Augusto, da grande organizzatore qual era, si preoccupa di collegare a nord Aquileia, avamposto di Roma, fondata 200 anni prima di Cristo, una grande città, importante come Milano. Augusto lega il porto dell’alto Adriatico con il Norico costruendo due vie: quella che passa da Tarvisio e appunto quella che passa per M.Croce e per il Brennero e diretta al centro dell’Europa.
E dopo il 1948?
Ho fatto il liceo a Udine e l‘università a Padova. Dopo il servizio militare mi sono dedicato alla professione di ingegnere libero professionista Trasferita a Udine la residenza, il segretario della Dc di Paluzza scrisse a mia insaputa a quello di Udine: “Guardate che vi abbiamo mandato un giovane che vi potrebbe tornare utile”.
Chi c’era come riferimento politico a Udine?
Siamo all’inizio degli anni sessanta, i personaggi importanti, i capi, sono due: Mario Toros, leader di Forze nuove, e Antonio Comelli, moroteo, che non ha mai voluto far poltica a Roma.
Un grande Presidente di Regione. Quello della ricostruzione post terremoto…
A partire dal 1970 faccio per cinque anni l’assessore alla provincia di Udine. Subisco la protesta di mia moglie perché, invece di un tranquillo ingegnere, scopre di aver sposato un uomo che per la politica trascura gli affetti familiari. Comunque, alle elezioni politiche Comelli mi propone la candidatura al Senato nel collegio dell’alto Friuli. Sono costretto a dire di no per non mettere in discussione il mio matrimonio. Mi capisci?! Nel 1975 resto in politica soltanto come consigliere del mio comune e mi dedico alla professione, in particolare ai problemi della ricostruzione. Nel 1978 divento consigliere regionale eletto nel collegio del terremoto, per una decisione che appare a molti scontata.
Se non ricordo male, hai seguito tutta la ricostruzione del terremoto del 1976?
Sì, dal 1976 al 1978 partecipando alla scrittura dei documenti tecnici innovativi utilizzati nella nostra ricostruzione. Dal 1978 al 1991 partecipando alla scrittura delle 69 leggi regionali che si sono occupate di ogni aspetto della ricostruzione.
Alla commemorazione dei 40 anni del terremoto e della ricostruzione, tenutasi alla Camera (Sala della Regina) ho partecipato, con Laura Boldrini, la Serracchiani e Zamberletti, in qualità di relatore.
Giuseppe Zamberletti ha ricordato le vicende della emergenza, io quelle della ricostruzione.
In quegli anni ho accumulato molta esperienza, tant’è che nel 1980, in occasione del terremoto dell’Irpinia, sono stato più volte utilizzato come consulente. Comelli, alle richieste di aiuto, mandava sempre me per conto della Regione, per la conoscenza che avevo sia degli aspetti tecnici che di quelli politici della ricostruzione.
Torniamo alla ricostruzione del Friuli. Le novità?
Nel 1976 lo Stato concesse alla Regione Friuli Venezia Giulia una delega amplissima per la ricostruzione, che non aveva precedenti e non fu più ripetuta. Fu una scelta di Moro, allora Presidente del Consiglio, il quale aveva presente l’esempio non proprio felice del Belice. Dopo otto anni dal sisma, da quelle parti non avevano battuto un chiodo, sempre alle prese con i piani generali urbanistici, i piani comprensoriali, i piani comunali…C’era un clima pesante, per questo Moro voleva intraprendere un’altra strada. Ancora: Moro aveva un rapporto privilegiato con il Friuli Venezia Giulia. La nostra era la Regione più morotea d’Italia, a giudicare dai risultati dei congressi della DC. Moro veniva volentieri da noi. A margine di una riunione a Palazzo Chigi, il 10 maggio 1976, in preparazione del decreto legge 227, chiese a Comelli se “la Regione se la sentiva di assumersi l’incarico della Ricostruzione”. Era una scelta coraggiosa e Comelli vi aderì con entusiasmo. L’idea della delega si trasformò nell’articolo 1 e 2 del decreto legge.
Moro mostrava di fidarsi della Regione: dare una delega piena era una opportunità, ma anche un rischio. Trieste era ammalata, al contrario di Udine, che stava in grandissima salute: Udine conosceva a quel tempo la sua rivoluzione industriale. Tuttavia, Trieste era collocata sulla cortina di ferro, bisognava assolutamente tenerne conto. E i triestini avevano insistito con Moro per finanziare i piani di sviluppo nel quadro delle norme sulla “specialità” del Friuli-Venezia Giulia. Per altro, da segretario politico della Dc Moro aveva seguito la nascita della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 che riconosceva la suddetta “specialità”.
Moro aveva pensato, in definitiva, che essendo ricostruzione e sviluppo inseparabili, attraverso la delega si potesse provvedere ai problemi della ricostruzione del Friuli e a quelli di Trieste contemporaneamente. E noi potevamo utilizzare quella benedetta delega per rovesciare l’impianto che si era dimostrato negativo per il Belice e che prevedeva l’abbandono dei vecchi centri urbani e la ricostruzione in nuovi siti.
Quindi, un’idea geniale di Moro. Ma torniamo alle tue vicende personali, ovvero al tuo diretto impegno politico.
Arrivato in regione, dovevo occuparmi solo di ricostruzione, pensavo come consigliere regionale e finii per fare l’assessore, alla istruzione e attività culturali perché Toros, capo di Forze Nuove, impose Adriano Biasutti come assessore alla ricostruzione. Per gli equilibri interni della Dc non potevano esserci due morotei uno presidente della giunta e l’altro con l’assessorato più importante..
Io, non ero un fanatico delle correnti; del resto, ero abbonato a Terza Fase. Le “cronache di bordo” le leggevo con piacere. Il fratello di Carlo Donat Cattin era direttore della scuola di formazione professionale di Trieste e quindi mio dipendente. Ebbi con lui qualche discussione di troppo. Mi chiamò da Roma il dott. Milazzo per trovare una soluzione. Comelli commentò: “Ti ha telefonato la persona più importante di Roma!”.
E i rapporti con Sergio Coloni?
L’ho avuto con me in Regione. È stato un grandissimo personaggio a Trieste. Corrado Belci lo era sul lato intellettuale, Coloni sul piano operativo: un leader indiscusso. Teneva i rapporti con gli sloveni, che erano comunisti ma parlavano solo con la Dc. Mi portava sempre con sé. “Ho bisogno di un Furlan”, diceva. Poi l’ho ritrovato a Roma. Diventò parlamentare una legislatura prima di me.
E la legge speciale per Trieste?
Non ha funzionato. Per Trieste la vera legge è stata quella della caduta del Muro di Berlino! Da quel momento ha ripreso a crescere in modo incontenibile.
E Giorgio Santuz? Che ruolo aveva?
Il capo era Toros, poi venivano Santuz, Biasutti e Turello, presidente della Provincia,
Udine era la capitale politica, Trieste lo era solo nominalmente. Quando la Dc, partito con maggiore radicamento nei centri minori, ha perso consensi, fatalmente ne ha risentito la forza della città. La prima sintesi si faceva a casa dei morotei friulani e triestini, e una volta trovato l’accordo tra Udine e Trieste si allargava il confronto a Forze Nuove.
Hai partecipato al Movimento giovanile?
No, nella Dc c’erano quelli che venivano dal Movimento giovanile e quelli che venivano dalla società civile. Io appartenevo alla schiera di quest’ultimi.
La ricostruzione post terremoto non è stata una grande sfida, per dimostrare efficienza e laboriosità nella gestione di problemi immani?
Sì, è stata davvero una grande sfida. Abbiamo ricostruito il Friuli terremotato in dieci anni e lo abbiamo fatto innovando, dando vita al “modello Friuli”. Un modello straordinario.
Ho seguito la commissione di inchiesta sull’Irpinia con Carrus e Gottardo, ex sindaco di Padova, ed emerse che sul terremoto dell’Irpinia vi fu un eccessivo ampliamento dell’area del cratere, ai fini della ricostruzione, e più in generale si palesarono problemi sul versante dei controlli. Torniamo alle vicende di partito. Come era organizzata la Dc in Friuli?
Si lavorava molto. Ho fatto parte della direzione regionale e provinciale. La Dc era organizzata bene, si presentava come un partito robusto, aveva molti iscritti e…noi eravamo fuori ogni sera Il conflitto con mia moglie era inevitabile! “Cosa mi interessa delle tue assemblee”, mi diceva, “stai a casa: abbiamo due figli”. Con la famiglia, coloro che facevano politica, finivano per avere debiti immensi.
È un problema di tutta la politica, almeno della politica di allora…
È vero. Comunque il partito era vivo. Sentiti gli iscritti, in realtà avevi realizzato un vero sondaggio alla stregua di quanto oggi ti propinano le società specializzate. Intendo dire che avevi sondato le radici della società, capendo cosa si muoveva in tutte le categorie e in tutte le articolazioni sociali.
E a Roma, in Parlamento, quando sei arrivato?
Nel 1992. Mi hanno messo subito a lavorare. Ho fatto il relatore sul bilancio, d’altronde lo avevo fatto anche in Regione. Al primo mandato sono stato Presidente della commissione bicamerale per il Belice. Ti ricordi di Vittorino Colombo? Fu incaricato di mettere d’accordo i siciliani per la scelta del presidente della bicamerale che spettava alla Dc. Ad un certo punto si arrabbiò. Battè il pugno sulla tavola gridando: “Basta! Il presidente lo fa Carpenedo: almeno sa che cosa è un terremoto!”. Ho saputo della scena da quelli che sono venuti a cercarmi per vedere che faccia avevo: insomma, nessuno mi conosceva.
Considero la legge sulla montagna, la legge 97/1994, il risultato più importante della mia attività di senatore. Della stessa sono stato relatore con l’incarico di predisporre il testo base. La legge è figlia del Senato. La Camera ci ha messo solo il timbro, di necessità. L’ho tirata fuori per i capelli perché si stava chiudendo la legislatura. Ci sono riuscito per il rotto della cuffia andando a implorare i deputati di approvarla a tutti i costi.
Ricordo, in effetti, che fondammo l’associazione “Amici della Montagna” con Coloni, con Roberto De Martin che era presidente del CAI…
Prova a chiedere al prof. Barberis se si ricorda di Carpenedo! Io mi ricordo di lui per gli ottimi suggerimenti che mi diede e per la generosità con cui mi giudicò quando ebbe a dire che senza la mia caparbietà la legge non sarebbe stata mai approvata!
In quella legislatura ci furono i provvedimenti sulle privatizzazioni, le manovre di risanamento…
Ricordo che fu un periodo complesso, molto impegnativo. Ho fatto il relatore anche per la manovra da 93 mila miliardi del governo Amato, per salvare il Paese dal fallimento. Direi che fu un periodo tragico per tutto quello che accadde. Ci furono cose inammissibili. Quello che ho provato per Scalfaro, per aver chiuso una legislatura che pure aveva una maggioranza…ecco, non voglio toccare questo argomento…Almeno avesse accettato la richiesta di Martinazzoli di abbinare le elezioni politiche con le europee. Si sarebbero guadagnati sei mesi, dando respiro a tutti noi. Scalfaro invece preferì operare una brutta forzatura costituzionale. Sciogliere un Parlamento non può essere una passeggiata! Lo fece a fin di bene perché era crollata la fiducia del popolo italiano nel Parlamento? Ma allora si sarebbe dovuto dimettere anche lui perché da quel Parlamento aveva ricevuto l’investitura!
Anche da “pensionato” non sono riuscito a superare un certo disappunto per quello che è accaduto. E aggiungo, pur con rispetto, che da Scalfaro mi aspettavo molto di più.
Amaramente sostengo oggi che non aveva speciali titoli speciale per diventare Presidente della Repubblica. Certo, portava i voti del Pci, ma per il semplice fatto che Napolitano, in cambio, avrebbe ottenuto la Presidenza della Camera.
Torniamo alla tua terra. Come è il Friuli oggi, si vede la mancanza di un partito come la Dc?
Altroché! Basta osservare la realtà. Udine nel periodo della Dc era forte, su tante cose era viva. Adesso è diventata un capoluogo di provincia qualsiasi, non è più un nodo nella rete delle città virtuose alla avanguardia nella ricerca.
Qualcuno imputa il rilassamento alle conseguenze della ricostruzione. In ogni caso dopo quasi 50 anni sarebbe ora di rimettersi in moto. Trieste e Udine sono due vasi comunicanti. Quando sale Udine, cala Trieste, e viceversa.
Sono come il dollaro con l’oro…
Sì, la storia ha questo andamento ciclico. Adesso per Udine è arrivata l’ora di svegliarsi un’altra volta, almeno lo spero. È una bella città, ben tenuta…ma non basta.
Dunque…il Friuli del dopoguerra e quello di oggi: che cosa emerge dal confronto?
Non ci sono dati significativamente diversi dal triveneto. Forse c’è più benessere diffuso, ma è crollata la natalità.
Ma non è più terra di emigrazione…
No, non lo è più da molto tempo. La piaga dell’emigrazione è stata presente fino all’inizio degli anni ‘70, poi il fenomeno si è interrotto. Era decollata la rivoluzione industriale, in ritardo nel nord-est rispetto a Milano Torino e Genova, i grandi poli dello sviluppo nell’immediato dopoguerra.
Cosa manca al Friuli dei nostri giorni?
Per le infrastrutture manca qualcosa, ma soprattutto manca il dinamismo. Udine, grazie all’università, dovrebbe essere all’avanguardia nel settore della ricerca. Stiamo vivendo la rivoluzione digitale e la città l’osserva quasi passivamente.
Ma a Trieste ho visitato importanti centri di ricerca…
A Trieste…ma non a Udine, che ha perso il suo ruolo trainante. Non è l’attore principale. Se osservi alcune vicende del comparto industriale concludi che è diventata più importante Pordenone. Michelangelo Agrusti è presidente dinamicissimo dell’Associazione industriali: ha realizzato un accordo tra Pordenone, Trieste e settore Giuliano, mentre Udine se ne sta per suo conto. Con quel ruolo Pordenone è cresciuta diventando la bandiera del dinamismo friulano. Pensa, dal punto di vista culturale, a Pordenonelegge.
Forse hanno inciso ragioni geografiche?
Cinquant’anni la geografia non era diversa e Udine aveva un ruolo.
Callegaro e Fioret non erano di Pordenone?
Si, dici bene. Mario Fioret, anche se molto avanti negli anni, dovresti coinvolgerlo nel racconto della storia della Dc del Friuli fino alla nascita della Regione.
Adesso cosa fai?
Finita l’esperienza politica sono stato Presidente dell’ordine degli ingegneri della provincia di Udine. Adesso cerco di tenermi in movimento. Le occasioni non mancano.
Abbiamo citato Zamberletti. Era molto amato, ma a tuo giudizio è stato ricordato adeguatamente?
Zamberletti ha letteralmente inventato la protezione civile. Lo hanno commemorato in tanti posti del Friuli, come era giusto. In qualità di commissario straordinario per l’emergenza lo trovavi dappertutto; aveva grandi capacità organizzative, infondeva fiducia e coraggio. La sua nomina a commissario vien fatta a Parlamento sciolto. Avrebbe potuto dire a Moro che doveva curare la sua campagna elettorale a Varese. Invece rimane in Friuli, lontano dal collegio, ma gli elettori varesini lo premiano con una valanga di voti. Dopo il terremoto di settembre viene richiamato a furor di popolo. Il Friuli gli rimane grato. I friulani considerano Giuseppe Zamberletti un loro grande amico.
Che cosa ricordi di più della esperienza politica? Che cosa ti ha affascinato maggiormente?
Ho sempre considerato la politica un gradino al di sopra della professione. Ho fatto l’ingegnere per il piacere di farlo, non per costrizione: mio padre era farmacista. Ho partecipato a progetti importanti, in campo professionale, ma riconosco alla politica un ruolo superiore. Quando ti senti investito di responsabilità, prima in Regione e poi in Parlamento, avverti il peso di un dovere morale, di una missione…
Aggiungo al discorso serio un pettegolezzo. Mi colpisce il fatto che specie i colleghi del Mezzogiorno, dopo l’esperienza parlamentare, sentano il bisogno di tornare spesso a Roma. Al nord questa esigenza è meno sentita, ma mantengo un ottimo ricordo degli anni trascorsi nella capitale.
Ti pesava venire a Roma?
Beh…ho dovuto lavorare molto, non ero in vacanza. No, non mi pesava, almeno non più di tanto. I trasporti erano buoni, dal treno all’aereo, anche se qualche volta i piloti facevano sciopero girando sulla città…