Non rassegniamoci al declino – Conferenza del Prof. Pellegrino Capaldo
di Pellegrino Capaldo
1. – Quando il Prof. Renato Guarini mi propose di tenere una conferenza su temi di attualità economica e politica accettai di buon grado, perché sono convinto che l’Università resta ancora la sede più adatta per discutere con il taglio giusto certi argomenti.
Trattare con il taglio giusto questioni politiche ed economiche di attualità significa prendere atto delle difficoltà dell’oggi non per farsene schiacciare anche in senso intellettuale ma per inquadrarle nella storia, nella ricca storia del nostro Paese, che è anche storia di periodi difficili, almeno quanto quelli presenti, dai quali comunque siamo usciti; e siamo usciti in qualche caso anche più forti di prima.
Ecco io tenterò proprio di gettare un ponte, se così posso esprimermi, tra la dura realtà dell’oggi e le aspettative che realisticamente possiamo coltivare. Proverò a dire non solo quello che si dovrebbe fare, ma anche come e perché si può fare.
2. – “Non rassegniamoci al declino. Il destino dell’Italia è nelle nostre mani”. Con questo titolo affermo che siamo in declino, ma al tempo stesso sostengo che non dobbiamo rassegnarci. Possiamo invertire la tendenza a patto che lo vogliamo veramente, a patto che siamo disposti a fare quel che è necessario.
Che siamo in declino è difficile negarlo. Certo possiamo discutere all’infinito sulla nozione di declino, sulla sua relatività, sui criteri per misurarlo. Non escludo che qualcuno possa anche sostenere con qualche plausibilità che non siamo in declino o non lo siamo ancora. Ma non è questo il punto. Declino o no, resta il fatto che nel nostro Paese molte cose non vanno, né possiamo sperare che si sistemino da sole, una volta superata la grave crisi che da alcuni anni travaglia tutto l’occidente. Non vanno per ragioni più profonde e molti di noi sentono che continueranno a non andare anche quando il resto dell’Europa uscirà dalla crisi.
Molti nostri mali preesistevano alla crisi. Probabilmente la crisi li ha aggravati, certamente non li risolve. Mi riferisco alla mancanza di lavoro che colpisce soprattutto i giovani, all’allargamento del divario sociale non solo nel reddito ma anche nelle opportunità: quello che una volta si chiamava l’ascensore sociale si è praticamente bloccato. Mi riferisco al costo della vita che cresce e diventa insopportabile per i ceti meno abbienti; mi riferisco all’affievolimento del senso di appartenenza che lacera sempre più il nostro già debole tessuto sociale.
3. – Per me tutto questo è declino, ma se vogliamo chiamarlo in altro modo, va bene lo stesso. È inutile attardarci su questioni nominalistiche. Guardiamo ai fatti e i fatti ci dicono che la situazione è grave ma ci dicono anche che la possiamo superare.
Il destino dell’Italia è dunque nelle nostre mani. Ciò significa due cose. La prima l’ho già detta: i problemi che abbiamo di fronte possono essere risolti. La seconda: la soluzione la dobbiamo trovare noi, noi italiani intendo dire. Non illudiamoci che la trovino altri; che la trovi l’Europa, che la trovi la Germania o chissà chi.
Questo è un punto centrale. E su questo punto purtroppo c’è molta confusione. Io noto una pericolosa tendenza a mettere tutto in un calderone: i problemi dell’Europa, i problemi dell’Euro e i problemi dell’Italia. È un errore grossolano perché sono questioni distinte anche se in qualche modo correlate. L’Europa e l’Euro hanno molte cose da mettere a posto e sono convinto che lo faranno, anche con il contributo del nostro Paese che, a cominciare dal Presidente del Consiglio, ha molte personalità in grado di ideare soluzioni adeguate ed equilibrate. Del resto è normale che un processo gigantesco come la costruzione dell’Europa e dell’Euro richieda in corso d’opera piccoli e grandi aggiustamenti.
Ma i problemi dell’Italia restano. Essi hanno una loro specificità e si aggraveranno se non ci daremo da fare. Insisto; sono problemi nostri, che abbiamo creato noi e noi dobbiamo risolverli. Mettiamo da parte l’illusione che altri lo facciano al nostro posto. D’altra parte quand’anche ciò fosse possibile, ne deriverebbe realisticamente un alto prezzo in termini di rinuncia alla nostra sovranità e alla nostra stessa dignità. E credo che saremmo tutti d’accordo nel ritenere che quel prezzo non possiamo pagarlo. C’è lo impedirebbe la nostra storia, il nostro decoro, il rispetto che dobbiamo ai nostri figli.
4. – E allora non resta che darci da fare. Abbiamo più di un motivo per essere cautamente ottimisti.
I nostri giovani hanno grandi qualità e lo dimostra il fatto che dovunque vadano – e vanno ormai da tutte le parti – si fanno onore.
Tra noi ci sono tantissime persone che hanno grande spirito di iniziativa, fantasia imprenditoriale e generosa disponibilità verso gli altri. Sta a noi non soffocare queste qualità; sta a noi valorizzarle lasciando spazi sempre più larghi ai cittadini e alla loro capacità di autorganizzazione; sta a noi evitare che queste qualità siano mortificate da una burocrazia plumbea e sempre più oppressiva.
Tra i motivi di ottimismo ne aggiungerei un altro. Noi siamo un Paese con una grande ricchezza anche se non proprio ben distribuita. E qui consentitemi una breve digressione. All’origine della gran parte dei nostri problemi, lo sappiamo tutti, c’è un enorme debito pubblico che corre ormai verso i 2.000 miliardi.: 20% in più del PIL; là dove secondo i parametri CEE dovrebbe essere il 60% del PIL. Abbiamo quindi un debito doppio di quello che dovrebbe essere. A fronte di questo debito, però, abbiamo tanti beni pubblici e soprattutto privati. Insomma il debito pubblico è alto, ma ancor più alta è la nostra ricchezza. A quanto ammonta? Io la calcolai poco più di un anno fa e giunsi alla conclusione che la nostra ricchezza privata era circa 7 volte il debito. Se faccio adesso quel calcolo giungo alla conclusione che – fermo rimanendo il debito – il rapporto è sceso a 6. E perché? Perché il valore della nostra ricchezza è diminuito nell’ultimo anno: la borsa ha avuto un crollo, il mercato immobiliare si è vistosamente indebolito. E il valore della nostra ricchezza è diminuito proprio a causa della crisi, resa ancor più acuta, nel caso italiano, dall’entità del debito. Questo ci porta ad una riflessione: nessuno di noi si illuda di riuscire a conservare quel poco o quel tanto che ha se il Paese va male. Il valore di quello che abbiamo, lo conserveremo e probabilmente lo accresceremo, solo se l’Italia esce dalle secche e ritrova la via della crescita e dello sviluppo. Ciò significa che se è necessario uno sforzo straordinario, uno sforzo una tantum per sistemare il Paese lo dobbiamo fare. Lo dobbiamo fare perché ci conviene, perché sarebbe da miopi non farlo. E se ci rifiutassimo non saremmo solo persone ingenerose verso l’Italia ma saremmo persone stupide, secondo la celebre definizione che della stupidità dava Carlo Cipolla.
5. Al punto in cui sono giunte le cose, credo che abbiamo bisogno di un grande progetto Paese, in grado di dire a tutti noi dove vogliamo andare e come ci arriviamo; in grado di disegnare a grandi linee l’Italia che vogliamo nei prossimi anni e forse nei prossimi decenni. Abbiamo poi bisogno di una forza politica che sappia parlare al Paese; che sappia far condividere il progetto e lo sappia attuare.
Perché occorre un grande progetto? I motivi sono tanti; provo ad indicare i principali:
1) Non possiamo continuare con «manovre» estemporanee. Le manovre possono andar bene quando il contesto è chiaro e occorre fare piccoli aggiustamenti legati a fatti imprevisti o imprevedibili. Ma quando le cose da aggiustare sono tante, le manovre non vanno più bene. È altissimo, infatti, il rischio che risolviamo un problema o ne creiamo o ne aggraviamo altri. Quando i problemi sono tanti difficilmente li possiamo affrontare uno alla volta. Vanno affrontati tutti insieme anche se poi la soluzione è scaglionata nel tempo. La verità è che i problemi sono concatenati e tali sono anche le soluzioni. A questo proposito rilevo che, nonostante tutto, per il 2014 si prevede ancora un disavanzo intorno ai 20 miliardi di euro.
2) Non possiamo neppure andare avanti con «tagli» più o meno improvvisati perché rischiamo di tagliare nel posto sbagliato. Con questo tipo di tagli impoveriamo e immeschiniamo il Paese e probabilmente aggraviamo i nostri mali.
Sulla spesa pubblica si può far molto ma occorre tempo e soprattutto metodo. Sono convinto, ad esempio, che l’apparato pubblico italiano possa costare molto di meno e produrre servizi di miglior qualità ma ad una precisa condizione: alla condizione che un gruppo di tecnici esperti e qualificati si metta a lavorare con pazienza e umiltà per verificare che cosa effettivamente fa la Pubblica Amministrazione, se quello che fa è ancora utile o è del tutto anacronistico; se lo fa nel modo più efficiente; se ci sono sovrapposizioni con enti locali e così via. Insomma dobbiamo fare quello che di tanto in tanto si fa nelle grandi aziende ben dirette: una rivisitazione dei metodi di lavoro e delle procedure, affidata a persone altamente qualificate.
La macchina burocratica del nostro Stato ha 150 anni e non ha mai subito una revisione organizzativa. È tempo di farla. Non ci sono alternative. Lasciamo stare i tagli più o meno lineari: essi aumentano sole le inefficienze e il caos organizzativo. Bisogna, tra l’altro, ridurre livelli di governo, abolendo certamente le province o altri enti ormai inutili ma anche ripensando i compiti e le funzioni delle Regioni.
3) Negli ultimi anni, il mondo è cambiato radicalmente. Parliamo tanto di globalizzazione ma non sempre ne cogliamo fino in fondo le implicazioni. Che cos’è la globalizzazione se non una nuova forma di divisione del lavoro e dei compiti a livello planetario? C’è sempre meno posto per quelli che pretendono di fare un po’ tutto. In un mondo che si fa sempre più piccolo e interdipendente dobbiamo interrogarci sul ruolo che noi italiani vogliamo avere, sulle cose che vogliamo fare.
Noi abbiamo un tenore di vita tra i più alti del mondo, nonostante strati sempre più ampi della popolazione avvertano un disagio crescente.. Non illudiamoci di mantenere il nostro tenore di vita facendo le stesse cose che altri Paesi fanno a costi di gran lunga inferiori, perché hanno salari più bassi, perché non hanno le giuste protezioni sociali che abbiano noi e così via.
È chiaro che se vogliamo mantenere l’attuale tenore di vita, che ci pone nel primo 10 12% della scala mondiale, dobbiamo concentrarci sulle cose per le quali possiamo avere un vantaggio competitivo su tutti gli altri; dobbiamo fare cose che è difficile fare altrove e che è difficile imitare. Da alcuni settori produttivi dobbiamo inesorabilmente uscire, in altri dobbiamo entrare, in altri dobbiamo crescere. Ecco: il grande progetto Paese deve aiutarci a far tutto questo senza traumi, con le strategie e i tempi giusti e, là dove occorre, con la presenza non invasiva dello Stato. Sbaglieremo ad affidarci solo agli automatismi di mercato, alla nostra inventiva e al nostro diffuso spirito imprenditoriale. Gli automatismi di mercato non sempre funzionano; a volte, come dire? si inceppano. L’inventiva e lo spirito imprenditoriale, dal canto loro, sono qualità fondamentali, sono proprio le qualità che ci spingono ad essere ottimisti sulle sorti del nostro Paese ma sono qualità che hanno bisogno di essere sorrette e orientate.
Vi è ancora un’altra ragione per la quale dobbiamo impegnarci in un grande progetto Paese. È una ragione più emotiva che tecnica ma non per questo è meno importante. C’è un grande bisogno di risvegliare in noi italiani il senso di appartenenza, che si è piuttosto intorpidito. Probabilmente proprio il venir meno di questo senso di appartenenza spiega molti mali della nostra società. Ecco allora l’importanza di un Progetto capace di far sognare i giovani chiamandoli a discutere e a disegnare l’Italia del futuro, l’Italia nella quale vogliamo vivere. Nulla unisce di più che lavorare per obiettivi comuni, per obiettivi fortemente sentiti e condivisi.
6. – Quanto al contenuto del grande Progetto, mi limito per ora ad indicare i suoi motivi ispiratori, le sue caratteristiche di fondo allo scopo di coglierne il senso e la portata.
Tre sono i pilastri del progetto e li indicherei così
1) destatalizzazione della nostra società e maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politico sociale,
2) rinnovata attenzione ai problemi dello sviluppo e delle imprese,
3) una riforma fiscale che tuteli di più le persone deboli e sia funzionale alla partecipazione dei cittadini e alla crescita economica.
Vediamoli in breve.
7. – Quando parlo di destatalizzazione non intendo certo dire che lo Stato deve ridurre il suo impegno in campo sociale. Al contrario. In alcuni casi lo deve addirittura aumentare. La questione è un’altra e riguarda il modo in cui lo Stato interviene. Dobbiamo abituarci a distinguere tra l’interesse generale che si intende perseguire e lo strumento che si impiega per soddisfarlo. Lo Stato, certo, deve rendersi garante dell’interesse generale ma non deve andare oltre. Oltre deve lasciare libertà di autorganizzazione ai singoli e li deve sostenere in questo loro sforzo.Mi rendo conto che questo diverso modo di pensare non è facile per chi, come noi, è abituato a lunghi anni di statalismo. Eppure dobbiamo riuscirci. Dobbiamo superare quel tabù secondo il quale solo lo Stato, con la sua azione diretta, può veramente tutelare l’interesse generale. Questo non è vero. E rifiutarci di ammetterlo significa sostenere costi più alti e avere servizi sempre più scadenti.
Pensiamo alla Sanità. Il nostro sistema si basa sull’idea che tutti debbano potersi curare anche se privi di mezzi. Trovo questa idea assolutamente condivisibile. Ma siamo sicuri che il modo migliore per attuare questa idea sia che lo Stato gestisca direttamente i servizi sanitari? Siamo proprio sicuri che non via siano altre formule organizzative più efficaci e meno costose? Dal canto mio sono sicuro del contrario; sono convinto che esistono forme ben più efficaci di uno Stato che faccia l’operatore sanitario.
Conosco bene l’obiezione che suona più o meno così: la sanità pubblica avrà anche tanti difetti ma la salute è troppo importante per lasciarne la tutela alla logica del mercato, dello scambio e del profitto. Questo modo di ragionare è profondamente sbagliato. È diffusissimo ma è sbagliato. Ecco perché parlo di un vero e proprio tabù.
Dobbiamo renderci conto che nel campo della sanità l’alternativa all’azione diretta dello Stato non è necessariamente l’impresa volta al profitto. La vera alternativa allo Stato sono le tante formule di autorganizzazione dei cittadini rette dalla logica della mutualità o della solidarietà e in ogni caso da logiche diverse da quella di mercato. Tocca allo Stato sperimentare e incentivare questi modelli di produzione diversi dall’impresa. E qui debbo dire che i modelli possibili sono molti, tanto più numerosi quanto più ci affideremo alla creatività delle persone e quanto più riusciremo a promuovere una vera cultura della partecipazione del cittadino.
Questo discorso vale non solo per la sanità, ma anche per i tanti servizi che lo Stato produce con proprie strutture là dove i diversi modelli di autoorganizzazione dei cittadini – basati sul non profit – potrebbero produrre a costi più bassi e con maggior soddisfazione dei destinatari.
8. – Altro pilastro del Progetto Paese è una rinnovata attenzione ai problemi dello sviluppo e delle imprese.
Parliamo tanto di PIL. Ne abbiamo fatto addirittura un feticcio. Tutto trasformiamo in punti di PIL. A volte lo facciamo in modo addirittura grottesco e senza renderci conto dei suoi gravi limiti di significatività. Eppure a questo interesse per il PIL non corrisponde la consapevolezza che la vera cresciuta, il duraturo sviluppo dell’economia è legato allo spirito d’iniziativa dei nostri imprenditori, alla loro capacità di fare impresa, di competere sui mercati internazionali e alle loro aspettative di profitto. Purtroppo nel nostro Paese il profitto assume connotazioni negative. Questo è profondamente sbagliato. Dobbiamo saper distinguere fra il profitto, che è figlio del rischio e dell’innovazione, e la rendita parassitaria. La rendita va energicamente contrastata. Il profitto, no. Non solo non va demonizzato, ma ne va riconosciuta la funzione.
Credo che nel nostro Paese gli imprenditori non abbiano complessivamente un posto adeguato nella scala sociale. Dobbiamo rivalutare la funzione imprenditoriale. Ai giovani dobbiamo far comprendere il grande valore sociale dell’imprenditore e dell’impresa la quale, pur non essendo l’unico modello organizzativo della produzione, resta comunque la struttura portante di tutto il nostro sistema economico sociale. Dobbiamo promuovere una vera cultura dell’impresa e del rischio, se occorre anche con opportune iniziative nelle scuole. A questo proposito ricordo il tema sull’importanza del risparmio che annualmente eravamo chiamati a svolgere noi studenti della scuola media. Chissà che la nostra alta propensione al risparmio non sia figlia anche di quella iniziativa.
9. – E vengo alle questioni fiscali.
Non starò qui a dirvi che occorre semplificare; non starò qui a dirvi che una cosa è chiamare il cittadino a pagare le imposte, tutt’altra cosa è vessarlo con un numero sconfinato di leggi, scritte in modo contorto che lo lasciano sempre e comunque in balia dell’amministrazione. Sono cose note sulle quali bisogna solo intervenire.
Voglio invece richiamare l’attenzione su due questioni di fondo che andrebbero poste al centro di ogni riforma. Occorre un Fisco che:
– presti più attenzione alle famiglie e alle imprese,
– sappia contribuire ad accrescere la partecipazione dei cittadini.
Quanto alla famiglia sappiamo tutti che il nostro sistema, per dettato costituzionale, si basa sul principio della «capacità contributiva» e, in connessione, sulla «progressività». Ora la progressività resta una mera e vuota enunciazione se non è accompagnata da interventi che vanno effettivamente nella direzione di una maggiore equità.
Progressività di per sé significa poco. Significa, ad esempio, che se chi guadagna 100 paga 20, chi guadagna il doppio dovrà pagare più del doppio, più di 40. Ma quanto di più? A questa domanda non vi è una risposta condivisa. Ecco allora che se vogliamo dare un vero senso alla progressività dobbiamo, a mio parere, porla in relazione con il «minimo vitale» necessario ad ogni famiglia e a ogni persona.
Solo se il loro reddito eccede il «limite vitale» quella persona o quella famiglia hanno capacità contributiva. Se il loro reddito è inferiore al «minimo vitale» non hanno capacità contributiva e in alcuni casi debbono addirittura ricevere qualche sostegno. Naturalmente questo «limite vitale» dipende dalla condizione soggettiva della famiglia: dal numero di componenti, dalla loro età, dalla presenza di soggetti disabili e così via. Solo così daremo un vero contenuto alla «progressività» che, non dimentichiamolo, costituisce la prima e più elementare forma di solidarietà tra le persone di una stessa comunità.
Mi rendo conto che la determinazione del «minimo vitale» è cosa tutt’altro che facile. Ma è una questione ineludibile. Vorrei dire che proprio nella determinazione di questo «minimo vitale» sta l’essenza della politica, la sua nobiltà, la sua capacità di coniugare sviluppo e solidarietà.
In tema di capacità contributiva dobbiamo poi porci una domanda. Ma la capacità contributiva dipende solo dall’entità del reddito o anche dalle sue caratteristiche? Per esempio: a parità di reddito, l’impiegato e l’artigiano hanno la stessa capacità contributiva? Secondo me la variabilità e l’aleatorietà del reddito non possono essere trascurate se vogliamo raggiungere una vera equità. Questo è un punto che va approfondito anche nel quadro di una doverosa lotta all’evasione.
10. – La fiscalità sull’impresa ha bisogno di radicali modifiche. Dobbiamo pensare ad una fiscalità che differisca il carico d’imposta dei primi anni di vita dell’impresa per darle modo di consolidarsi. Più in generale bisogna pensare ad una fiscalità che stimoli la crescita e lo sviluppo dell’impresa e al tempo stesso incoraggi la separazione dell’impresa dalla persona dell’imprenditore. Finché il reddito resta nell’impresa, l’aliquota dell’imposta deve essere molto bassa. Secondo me non dovrebbe superare il 20%, ma potrebbe essere addirittura inferiore se la base imponibile fosse costituita dal reddito prima dell’imputazione degli interessi passivi. Per questa via si otterrebbero due importanti risultati:
– si contrasterebbe l’evasione fiscale e la poco commendevole abitudine di molti imprenditori di caricare sull’impresa spese che sono veri e propri consumi di famiglia;
– si incoraggerebbe l’autofinanziamento che è la premessa dello sviluppo dell’impresa.
Insomma bisogna operare una distinzione molto netta tra redditi dell’impresa e reddito dei suoi proprietari. Finché resta nell’impresa, finché non diventa un’entrata dei proprietari, il reddito deve avere un trattamento molto leggero anche perché resta pur sempre esposto al rischio proprio della gestione.
11. – Il Fisco, infine, deve essere strumento per stimolare la partecipazione e per avviare il processo di destatalizzazione di cui ho parlato prima. È una questione importantissima che ci porta al cuore del grande progetto Paese. Ma come possiamo promuovere la maggior partecipazione dei cittadini? Che cosa possiamo fare per indurre tutti noi a riappropriarci di quegli spazi che inopinatamente e pigramente abbiamo lasciato allo Stato? Non ho ricette sicure. Ma credo che si possa cominciare, intanto, facendo sì che le decisioni in materia di spesa pubblica vengano affidate – ogni volta che ciò sia possibile ai cittadini o alle loro organizzazioni, sottraendole pertanto alla burocrazia e alla politica.
Lo strumento più efficace consiste nell’accordare un credito di imposta ai cittadini che donano risorse finanziarie a soggetti che perseguono finalità ritenute d’interesse generale, iscritti in appositi elenchi e sottoposti a controlli al tempo stesso semplici e rigorosi.
Il credito d’imposta dovrebbe essere strutturato in modo che i cittadini lo possano recuperare in tempo reale rispetto al momento della donazione. La sua entità dovrebbe essere variamente dosata in funzione del «grado» d’interesse generale che riveste il soggetto beneficiario. Essa può andare, ad esempio, dal 20-25% fino al 95-98% dell’erogazione qualora questa sia destinata a soggetti impegnati in attività che in ogni caso dovrebbe svolgere lo Stato o che lo Stato ritiene comunque di dover più o meno integralmente finanziare.
Per fare un solo esempio pensiamo al finanziamento della politica. Se si ritiene, come io ritengo, che il costo della politica debba, entro certi limiti, far carico alla finanza pubblica, è preferibile adottare un meccanismo di questo tipo, che lascia ai cittadini la scelta e ne promuove il coinvolgimento nella vita dei partiti, piuttosto che affidarsi alle attuali procedure che, nella loro opacità, sembrano fatte apposta per allontanare sempre più il cittadino dalla politica.12. – A questo proposito mi piace dirvi che abbiamo
predisposto un disegno di legge d’iniziativa popolare (per il quale occorre raccogliere 50.000 firme) che prevede l’abrogazione delle leggi sul finanziamento dei partiti e la loro sostituzione con un credito d’imposta accordato ai cittadini che donano risorse ai partiti. Il credito è pari al 95% della somma versata con un massimo di 2.000 euro. Se andrà in porto, questo meccanismo farà scattare una sana emulazione tra i partiti e darà una forte spinta al loro rinnovamento come condizione per acquisire il consenso e la fiducia dei cittadini.
È mio convincimento che questa formula possa essere utilmente sperimentata in molti altri campi d’azione dello Stato, a cominciare dagli interventi in campo sociale.
13. – Provo a tirare le fila.
L’Italia ha bisogno di un grande Progetto che ci proponga obiettivi alla nostra portata, ambiziosi e realistici al tempo stesso, e sappia risvegliare soprattutto nei giovani, entusiasmo e speranza. Non andremo molto lontano se continueremo a vivere più o meno alla giornata. Non andremo molto lontano se ci faremo guidare solo dall’ossessione di far quadrare i conti pubblici e soprattutto questo lo voglio sottolineare – se ci faremo guidare dall’ossessione di farli quadrare evitando di chiamare i cittadini ad uno straordinario sforzo comune e solidale. Che i conti debbano quadrare è fuori discussione. Ma non dobbiamo dimenticare che la quadratura dei conti non è un fine in sé. Soprattutto in una nazione con la nostra ricchezza, essi possono quadrare in vari modi, con differenti tipi di politiche. Sta a noi scegliere con consapevolezza evitando soluzioni che accentuino pericolosamente gli squilibri di cui soffre la nostra società e ci espongano al rischio di immeschinire e, alla lunga, di impoverire il nostro Paese. Questo è il punto cruciale della questione che abbiamo di fronte. E stupisce che esso sia largamente trascurato. Dal canto mio non posso nascondere la meraviglia, lo sconcerto e l’amarezza che suscitano in me come cattolico alcuni appelli, rivolti indistintamente a tutti i cittadini italiani, che sarebbero ineccepibili solo se i nostri problemi ammettessero una e una sola soluzione.
Ma chi e come accende la miccia? Chi e come può dare avvio ad un processo come quello sommariamente illustrato?
A mio parere, nonostante tutto, dobbiamo affidarci alla politica. Solo la politica, la buona politica, può dare un’equilibrata soluzione ai problemi che abbiamo di fronte. Non vi sono alternative al faticoso e a volte tortuoso procedere della politica. Non facciamoci illudere dalla prospettiva di soluzioni tecniche ispirate a rigore e razionalità. I fatti sociali hanno complessità che la tecnica, anche la più raffinata, non sempre è in grado di dominare.
Nel prossimo anno avremo le elezioni. Grazie anche alla meritoria azione del governo in carica, è molto diffusa l’opinione che il quadro politico subirà un profondo processo di scomposizione e ricomposizione. Ecco, noi dobbiamo sperare e, per quanto possibile, dobbiamo adoperarci perché la ricomposizione avvenga nel segno delle idee che qui vi ho illustrato, nel segno di un progetto capace di imprimere una svolta al nostro Paese. Una svolta che non è né di destra né di sinistra ma solo di buon senso, del senso comune alle tante persone che sono convinte che l’Italia possa avere un futuro migliore.
Non so se la politica raccoglierà questo nostro invito. So di certo che non sarà il neoqualunquismo dell’antipolitica a salvare l’Italia.