La Lega movimento di popolo 

La Lega movimento di popolo 

(articolo pubblicato su “Il Predellino”)

Peccato che il bel numero, il numero 3, del supplemento del Corriere della Sera Sette contenga una analisi di Aldo Cazzullo sui successi della Lega che ritengo disinvoltamente semplificatoria.Non conosco la storia politica di Aldo Cazzullo, le sue esperienze giovanili, le sue frequentazioni politiche, ma affermare che la “Lega rappresenta la paura” e “più che il Pci con la rete capillare delle sezioni, ricorda Lotta Continua: quel che conta non è raggiungere l’obiettivo, ma alzare i toni, esasperare le tensioni, in un redditizio clima di conflittualità permanente” suscita sconcerto. Se questa è l’analisi credo che della Lega si è capito poco o niente. Il paragone è sbagliato e deviante. La Lega è altro. La storia della Lega dal 1987, allorquando assunse una prima ridotta rappresentanza parlamentare e prima del balzo elettorale del 1992-1994 non può essere banalizzata. La Lega non ha costruito il suo successo sulle paure della immigrazione, che semmai sono un fenomeno più recente ma su una altra e profonda piattaforma programmatica fondata su scelte forti e chiare, come la riforma dello Stato, il cittadino al centro delle scelte, la questione fiscale. Lotta Continua era un movimento studentesco-intellettuale ancorato nelle Università e nei grandi centri urbani, più legato al sessantotto e al frazionismo a sinistra del Pci per affermare la leadership culturale e politica, mentre la Lega è un movimento di popolo, che ha iniziale successo nelle zone più bianche del Paese, nelle aree interne e nelle valli del Nord. Quel popolo, di artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, agricoltori, trovava rappresentanza nella Dc attraverso una articolazione piramidale che dalle sezioni periferiche arrivava ai livelli più alti; quel popolo aveva istanze che non venivano più recepite nella articolazione della Dc, stemperate nella estenuante mediazione politica, sacrificate sull’altare della governabilità. Il territorio delle partite IVA, dei contribuenti vessati da un fisco opprimente, non si sentiva più rappresentato, soprattutto mentre si affermava il Mercato Unico Europeo, si proseguiva nel cammino verso Maastricht che interveniva con nuove regole mentre avanzava la globalizzazione che portava il nostro sistema economico in campo aperto con i rischi conseguenti. Con i vincoli della competitività, emergeva la crisi dell’intervento pubblico in economia e dunque delle Partecipazioni Statali, con i relativi oneri impropri. Quello che era stato il motore dello sviluppo degli anni sessanta insieme alle politiche meridionalistiche, per superare i divari economici e sociali era spento perché ormai senza carburante. Non si può infine dimenticare la grande crisi fiscale che colpisce il Paese. La pressione fiscale dal 1980 al 1990 passa dal 31% al 39%, penalizzando proprio le PMI del nostro Paese. Solo nel 1990 l’aumento del gettito è stato del 13,6%, con una crescita disordinata dei tributi, contro una media europea del 9,8. La spesa era sfuggita a qualsiasi controllo, di qui l’incremento del debito e della pressione fiscale per inseguire una spesa inarrestabile e incontrollabile. La manovra di Amato da 93.000, con la minimum tax completa l’opera nella crisi della rappresentanza. E’ dunque una crisi di domanda sociale che si levava dal Paese per la soluzione dei problemi e che i governanti di allora erano incapaci di affrontare. Questi furono i fattori che determinarono l’abbandono progressivo dei consensi verso la DC e lo spostamento verso la Lega. Dalla crisi fiscale mosse il federalismo come affermazione del principio di responsabilità tra eletti ed elettori, tra governanti e governati. Il federalismo fiscale è stata per la Lega la madre di tutte le battaglie e rimane purtroppo una questione centrale, ancora irrisolta. La Lega ha saputo dunque cavalcare e interpretare le domande sociali anche con qualche ruvidezza dialettica ma sempre i sintonia con il popolo del nord. Altro che Lotta continua… Se Cazzullo, in gioventù, avesse avuto la possibilità di frequentare qualche sezione democristiana degli anni sessanta, settanta e anche ottanta forse avrebbe scoperto che quelle domande della società civile erano dello stesso popolo, che aveva deciso di cambiare la propria rappresentanza. E che Lega ha saputo portare avanti con forza e determinazione le istanze della società soprattutto nel nord del Paese. Quelle sollecitazioni purtroppo si fermavano nelle sezioni, al livello più basso e non riuscivano più a essere veicolate verso quelli più alti. Si era determinato un corto circuito decisionale. I dirigenti democristiani erano nella impossibilità di tradurle in decisioni coerenti. Quella rottura tra base e vertice ha finito logorare e indebolire una classe dirigente che tuttavia non va dimenticato ha di certo molti meriti nella crescita economica e civile del Paese. Era ormai finito il tempo della mediazione e avanzava il tempo della decisione. La Lega ha saputo interpretare la questione settentrionale più di quanto abbiano fatto finora altre forze politiche autonomistiche nel Mezzogiorno incapaci di dare una soluzione alla questione meridionale che oggi merita quello stesso grande impegno che grandi meridionalisti, ma settentrionali di origine come Vanoni e Saraceno seppero offrire nel dopoguerra, se si vuole evitare la crisi della rappresentanza sperimentata con la crisi della Dc e il successo della Lega sulla questione settentrionale.25 gennaio 2010

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